La tesi indaga il rapporto fra Gianni Celati e l’opera di James Joyce, con particolare riferimento all’Ulisse. L’autore, infatti, ha studiato a lungo questo romanzo: negli anni Sessanta si è laureato all’Università di Bologna con una tesi su quest’opera, nel 2013 l’ha tradotta in italiano per Einaudi. Il mio lavoro ricostruisce dunque le relazioni esistenti fra l’Ulisse e la teoria letteraria di Celati, le quali si snodano lungo tutta l’attività dello scrittore, in particolare nella cosiddetta prima fase (anni Settanta). La tesi è divisa in tre capitoli. Nel primo capitolo della tesi sono delineati due campi teorici diversi. Il primo riguarda il tardo modernismo o neomodernismo, un oggetto di studi che in ambito anglosassone è sorto assieme alla definizione del modernismo, ed è stato importato in Italia solo negli ultimi anni, in connessione allo sviluppo della nozione di modernismo nel nostro Paese. La più autorevole voce italiana nel dibattito sul neomodernismo è Tiziano Toracca, che nel 2022 ha pubblicato una monografia sul romanzo neomodernista italiano. In questa parte del capitolo effettuo una ricognizione critica della nascita del concetto di modernismo, mettendo in luce come esso sia sorto soprattutto in contrapposizione alle prime teorizzazioni del postmodernismo. I testi principali cui faccio riferimento sono di Clement Greenberg, Frank Kermode, Theodor Adorno, Leslie Fiedler e Susan Sontag. L’imperfezione della categoria di modernismo in questa fase ha portato i critici a rilevare l’esistenza di un tardo modernismo o neomodernismo, termini di varia accezione ma che evidenziano come all’altezza degli anni Sessanta la transizione dal modernismo al postmodernismo non è ancora compiuta del tutto. Il secondo campo teorico riguarda invece la ricezione di Joyce in Italia negli anni Sessanta. Grazie alla prima traduzione italiana dell’Ulisse, pubblicata nel 1960, il nome di Joyce circolò molto nel panorama letterario italiano di quegli anni, in tutte le diverse parti della cultura italiana di quell’epoca. L’interpretazione italiana di Joyce in quest’epoca è influenzata in campo critico dall’incompleta ricezione della categoria di modernismo, in questa fase nota solo agli studiosi di letteratura angloamericana. In campo letterario l’estrema versatilità che l’Ulisse presenta lo rende un punto di riferimento per diversi scrittori. I due campi teorici sono collegati: non solo perché Joyce fu immediatamente interpretato come un grande autore del modernismo europeo, ma anche perché la sua opera si prestava particolarmente bene alla rivisitazione in una particolare declinazione del tardo modernismo che chiamo ‘modernismo popolare’, prendendo questa espressione dal teorico inglese Mark Fisher. Si tratta di una categoria critica che individua una persistenza delle tecniche moderniste in alcuni scrittori degli anni Sessanta e Settanta: oltre a Gianni Celati, mi riferisco a opere di Nanni Balestrini, Francesco Leonetti, Sebastiano Vassalli. Come dimostro, questi autori tentano di colmare il divario tra scrittore e pubblico che era percepito come elemento fondamentale del modernismo, riutilizzando però, almeno in parte, tecniche tipiche del modernismo; un tale atteggiamento fu notato a proposito di autori americani e francesi già da Kermode in quella stessa epoca. Tale categoria concettuale mi sembra particolarmente proficua per colmare una lacuna nelle definizioni del campo letterario dell’epoca; mettere in luce tale particolare dinamica intellettuale, inoltre, consente di precisare alcuni aspetti della lunga transizione dal modernismo al postmodernismo vissuta dalla cultura italiana fra anni Settanta e Ottanta; infine, aspetto centrale nella struttura dell’intera tesi, il ‘modernismo popolare’ è esattamente l’ambito culturale in cui Celati si è formato, ha maturato la sua idea di letteratura e soprattutto ha studiato l’Ulisse – ricevendo da questi studi impulsi e suggestioni decisive per la sua carriera. Come si evince dalla sua tesi di laurea, infatti, è già con la lettura di Joyce che Celati si indirizza verso due grandi tematiche della sua attività intellettuale, ossia quella visiva e quella orale. Nel secondo capitolo, grazie all’intermedialità che caratterizza le sperimentazioni del modernismo e del postmodernismo, analizzo alcuni aspetti dell’interesse di Gianni Celati nei confronti della visualità. Si tratta di una tema classico della critica celatiana, su cui è incentrata molta bibliografia. Però, la molteplicità degli interessi visuali di Celati ha impedito finora di avanzare una sistemazione teorica di questo aspetto della sua scrittura. Pertanto, nel secondo capitolo delineo un’interpretazione di tali interessi a partire dalla riflessione di Celati sul concetto di spazio, che precede tutti gli altri elementi tipici della visualità celatiana. Dopo un’analisi della particolare collocazione critica di Celati nel postmodernismo italiano, adotto il concetto di regime scopico, coniato da Martin Jay, per costruire un’analisi incentrata su tre elementi: sguardo, visione e dispositivo. A ciascuno di questi elementi è dedicato una parte del secondo capitolo. Per quanto riguarda lo sguardo, inteso come atteggiamento concettuale che predispone la possibilità visiva, ricostruisco l’interesse di Celati verso il surrealismo negli anni Settanta e la sua svolta in chiave fenomenologica a partire dagli anni Ottanta. L’idea di base è che lo sguardo di Celati sia cambiato proprio in funzione del diverso orizzonte culturale con cui esso è inevitabilmente in dialogo. Autori-chiave in questo percorso sono Walter Benjamin e Susan Sontag. Benjamin rimane una sorta di stella polare per Celati. La parte del secondo capitolo dedicata alla visione, intesa come insieme di immagini esistenti verso cui lo sguardo si volge, ricostruisce l’evoluzione di tale concetto nella carriera di Celati. È individuabile una dicotomia: la prima parte della carriera è contraddistinta da visioni principalmente di carattere comico e satirico, legate ai concetti di crisi e apocalissi, in sintonia con varie ricerche letterarie di fine anni Sessanta e inizio Settanta. Dagli anni Ottanta in poi, tali visioni diventano immagini più affettive, che caratterizzano l’ultima fase della sua carriera. In questa parte cerco di far diventare evidenti i legami di Celati con altri autori stranieri, fra cui Blake e Michaux. La connessione fra queste influenze estere e la riflessione sul visivo si innesta, in particolare, su un crescente interesse di Celati verso la forma del documentario a partire dagli anni Novanta: tale passaggio mi permette di approdare al paragrafo successivo, dedicato al dispositivo, ossia il mezzo formale che mette in comunicazione sguardo e visione. In questa parte, infatti, analizzo come nella teoria del documentario di Celati un ruolo privilegiato sia svolto dal concetto di montaggio delle immagini, che l’autore aveva già individuato, sia pure precocemente, nella sua analisi dell’Ulisse di metà anni Sessanta. La teoria documentaria di Celati è rilevante perché costituisce il presupposto teorico dell’ultima parte della sua produzione, legata al mezzo cinematografico e in particolare alla tecnica del montaggio: la precocità dell’ingresso del concetto di montaggio nella riflessione celatiana, risalente alla tesi su Joyce, mi permette di rilevarne l’importanza. Pertanto, avanzo l’ipotesi che l’iniziale fascinazione di Celati verso le forme del vaudeville, del music hall e della comicità slapstick, che caratterizza le sue prime opere narrative, sia derivata non solo dall’influsso di Beckett ma anche da quello di Joyce, e segnatamente dall’episodio Circe, XV capitolo dell’Ulisse. Il terzo e ultimo capitolo della tesi riguarda invece la questione dell’oralità. Come la visualità, anche questo tema è stato ampiamente dibattuto dalla critica celatiana; nuovamente, ci si imbatte di continuo in testimonianze e riflessioni su questo tema da parte di Celati. Nella prima parte del capitolo, ci si interroga su come questa questione possa aver influito nell’inserimento di Celati all’interno del nostro canone: è infatti proprio su questo terreno che si gioca il suo posizionamento culturale rispetto alla letteratura commerciale. Celati attribuisce molta importanza all’elemento orale da quando rinuncia, dagli anni Ottanta in poi, a scrivere romanzi. Ciononostante, la sua dizione narrativa fa scuola: a una prima ondata di ‘nipotini celatiani’ di area bolognese, variamente legati al Settantasette, tra cui spicca Tondelli, seguono i cosiddetti scrittori della via Emilia, il cui principale esponente è forse Ermanno Cavazzoni. Se i primi si rifanno apertamente all’oralità comica dei romanzi di Celati degli anni Settanta, e guardano in particolare a Lunario del paradiso, i secondi prendono a lezione la trilogia padana degli anni Ottanta. Questa curiosa ‘biforcazione’ dell’influenza di Celati mi consente di impostare il discorso su una dicotomia, dovuta a un cambio di ‘postura’: parlo della regressione e della semplicità. Sono termini che mutuo da Celati stesso, e che sono stati ampiamente utilizzati dalla critica celatiana. La regressione occupa appunto la parte di carriera che si svolge negli anni Settanta: la mia argomentazione è che tale postura è legata concettualmente all’estensione della dizione narrativa a personaggi marginali e folli; sul piano formale consiste invece in una ripresa di vari moduli espressionistici spesso desunti da grandi autori modernisti. Entra qui in gioco un importante modello di Celati, ovvero Céline; ma, come dimostro, ha posto anche Joyce, ed è in questi anni che Celati riflette appunto sul Finnegans Wake. L’esempio joyciano, inoltre, illumina il nesso fra oralità e parodia, particolarmente caro a Celati che ne tratta in Finzioni occidentali. Fra gli altri punti di riferimento di Celati, un ruolo di primo piano spetta a Sanguineti, il cui Capriccio italiano costituisce un vero esempio di posa regressiva. Il tema della regressione è pertanto centrale nel Celati degli anni Settanta, anche in virtù della sua collaborazione con la rivista satirica «il Caffè», che ospita spesso le riflessioni celatiane su oralità, parodia, satira; altra saggistica a riguardo è rintracciabile sul «Verri». Si tocca qui con mano il laboratorio intellettuale di Celati, negli anni immediatamente precedenti a Finzioni occidentali, e di cui questo libro costituisce contemporaneamente un frutto e una grande sintesi. Alla fine degli anni Settanta, la conclusione della stagione delle contestazioni, la crescente insoddisfazione verso le scritture di questo decennio, l’esaurirsi dell’entusiasmo iniziale per l’insegnamento universitario e la fine del rapporto con Einaudi impongono a Celati il cambio di postura. In questo riposizionamento, Benjamin rimane un punto fermo, ma stavolta Celati si rivolge a un Benjamin più malinconico (condividendo in ciò l’impostazione teorica individuata da Sontag in Sotto il segno di Saturno): quello del Narratore. Pertanto, Celati assume la postura della semplicità, sempre su base orale, che contraddistingue la sua produzione dagli anni Ottanta in poi. È qui che l’influenza di Joyce apparentemente termina, poiché Celati fa una mossa inversa rispetto a quella dell’irlandese: laddove l’Ulisse è interpretabile come la naturale evoluzione delle short stories di Gente di Dublino, Celati sembra piuttosto scomporre i già semplici romanzi degli anni Settanta in novelle e storie di vita quotidiana. Rimane, come unico trait d’union fra i due autori, l’attenzione appunto alla quotidianità, infusa in personaggi accomunati da una certa curiosità verso ciò che li circonda, capaci di distrarsi, il cui modello va indubitabilmente rintracciato in Leopold Bloom: a questo è dedicata una piccola appendice posta alla fine della tesi.

«L'ascolto di una tradizione». Gianni Celati lettore e studioso di James Joyce / Giorgio, Simone. - (2024 Apr 30).

«L'ascolto di una tradizione». Gianni Celati lettore e studioso di James Joyce

Giorgio, Simone
2024-04-30

Abstract

La tesi indaga il rapporto fra Gianni Celati e l’opera di James Joyce, con particolare riferimento all’Ulisse. L’autore, infatti, ha studiato a lungo questo romanzo: negli anni Sessanta si è laureato all’Università di Bologna con una tesi su quest’opera, nel 2013 l’ha tradotta in italiano per Einaudi. Il mio lavoro ricostruisce dunque le relazioni esistenti fra l’Ulisse e la teoria letteraria di Celati, le quali si snodano lungo tutta l’attività dello scrittore, in particolare nella cosiddetta prima fase (anni Settanta). La tesi è divisa in tre capitoli. Nel primo capitolo della tesi sono delineati due campi teorici diversi. Il primo riguarda il tardo modernismo o neomodernismo, un oggetto di studi che in ambito anglosassone è sorto assieme alla definizione del modernismo, ed è stato importato in Italia solo negli ultimi anni, in connessione allo sviluppo della nozione di modernismo nel nostro Paese. La più autorevole voce italiana nel dibattito sul neomodernismo è Tiziano Toracca, che nel 2022 ha pubblicato una monografia sul romanzo neomodernista italiano. In questa parte del capitolo effettuo una ricognizione critica della nascita del concetto di modernismo, mettendo in luce come esso sia sorto soprattutto in contrapposizione alle prime teorizzazioni del postmodernismo. I testi principali cui faccio riferimento sono di Clement Greenberg, Frank Kermode, Theodor Adorno, Leslie Fiedler e Susan Sontag. L’imperfezione della categoria di modernismo in questa fase ha portato i critici a rilevare l’esistenza di un tardo modernismo o neomodernismo, termini di varia accezione ma che evidenziano come all’altezza degli anni Sessanta la transizione dal modernismo al postmodernismo non è ancora compiuta del tutto. Il secondo campo teorico riguarda invece la ricezione di Joyce in Italia negli anni Sessanta. Grazie alla prima traduzione italiana dell’Ulisse, pubblicata nel 1960, il nome di Joyce circolò molto nel panorama letterario italiano di quegli anni, in tutte le diverse parti della cultura italiana di quell’epoca. L’interpretazione italiana di Joyce in quest’epoca è influenzata in campo critico dall’incompleta ricezione della categoria di modernismo, in questa fase nota solo agli studiosi di letteratura angloamericana. In campo letterario l’estrema versatilità che l’Ulisse presenta lo rende un punto di riferimento per diversi scrittori. I due campi teorici sono collegati: non solo perché Joyce fu immediatamente interpretato come un grande autore del modernismo europeo, ma anche perché la sua opera si prestava particolarmente bene alla rivisitazione in una particolare declinazione del tardo modernismo che chiamo ‘modernismo popolare’, prendendo questa espressione dal teorico inglese Mark Fisher. Si tratta di una categoria critica che individua una persistenza delle tecniche moderniste in alcuni scrittori degli anni Sessanta e Settanta: oltre a Gianni Celati, mi riferisco a opere di Nanni Balestrini, Francesco Leonetti, Sebastiano Vassalli. Come dimostro, questi autori tentano di colmare il divario tra scrittore e pubblico che era percepito come elemento fondamentale del modernismo, riutilizzando però, almeno in parte, tecniche tipiche del modernismo; un tale atteggiamento fu notato a proposito di autori americani e francesi già da Kermode in quella stessa epoca. Tale categoria concettuale mi sembra particolarmente proficua per colmare una lacuna nelle definizioni del campo letterario dell’epoca; mettere in luce tale particolare dinamica intellettuale, inoltre, consente di precisare alcuni aspetti della lunga transizione dal modernismo al postmodernismo vissuta dalla cultura italiana fra anni Settanta e Ottanta; infine, aspetto centrale nella struttura dell’intera tesi, il ‘modernismo popolare’ è esattamente l’ambito culturale in cui Celati si è formato, ha maturato la sua idea di letteratura e soprattutto ha studiato l’Ulisse – ricevendo da questi studi impulsi e suggestioni decisive per la sua carriera. Come si evince dalla sua tesi di laurea, infatti, è già con la lettura di Joyce che Celati si indirizza verso due grandi tematiche della sua attività intellettuale, ossia quella visiva e quella orale. Nel secondo capitolo, grazie all’intermedialità che caratterizza le sperimentazioni del modernismo e del postmodernismo, analizzo alcuni aspetti dell’interesse di Gianni Celati nei confronti della visualità. Si tratta di una tema classico della critica celatiana, su cui è incentrata molta bibliografia. Però, la molteplicità degli interessi visuali di Celati ha impedito finora di avanzare una sistemazione teorica di questo aspetto della sua scrittura. Pertanto, nel secondo capitolo delineo un’interpretazione di tali interessi a partire dalla riflessione di Celati sul concetto di spazio, che precede tutti gli altri elementi tipici della visualità celatiana. Dopo un’analisi della particolare collocazione critica di Celati nel postmodernismo italiano, adotto il concetto di regime scopico, coniato da Martin Jay, per costruire un’analisi incentrata su tre elementi: sguardo, visione e dispositivo. A ciascuno di questi elementi è dedicato una parte del secondo capitolo. Per quanto riguarda lo sguardo, inteso come atteggiamento concettuale che predispone la possibilità visiva, ricostruisco l’interesse di Celati verso il surrealismo negli anni Settanta e la sua svolta in chiave fenomenologica a partire dagli anni Ottanta. L’idea di base è che lo sguardo di Celati sia cambiato proprio in funzione del diverso orizzonte culturale con cui esso è inevitabilmente in dialogo. Autori-chiave in questo percorso sono Walter Benjamin e Susan Sontag. Benjamin rimane una sorta di stella polare per Celati. La parte del secondo capitolo dedicata alla visione, intesa come insieme di immagini esistenti verso cui lo sguardo si volge, ricostruisce l’evoluzione di tale concetto nella carriera di Celati. È individuabile una dicotomia: la prima parte della carriera è contraddistinta da visioni principalmente di carattere comico e satirico, legate ai concetti di crisi e apocalissi, in sintonia con varie ricerche letterarie di fine anni Sessanta e inizio Settanta. Dagli anni Ottanta in poi, tali visioni diventano immagini più affettive, che caratterizzano l’ultima fase della sua carriera. In questa parte cerco di far diventare evidenti i legami di Celati con altri autori stranieri, fra cui Blake e Michaux. La connessione fra queste influenze estere e la riflessione sul visivo si innesta, in particolare, su un crescente interesse di Celati verso la forma del documentario a partire dagli anni Novanta: tale passaggio mi permette di approdare al paragrafo successivo, dedicato al dispositivo, ossia il mezzo formale che mette in comunicazione sguardo e visione. In questa parte, infatti, analizzo come nella teoria del documentario di Celati un ruolo privilegiato sia svolto dal concetto di montaggio delle immagini, che l’autore aveva già individuato, sia pure precocemente, nella sua analisi dell’Ulisse di metà anni Sessanta. La teoria documentaria di Celati è rilevante perché costituisce il presupposto teorico dell’ultima parte della sua produzione, legata al mezzo cinematografico e in particolare alla tecnica del montaggio: la precocità dell’ingresso del concetto di montaggio nella riflessione celatiana, risalente alla tesi su Joyce, mi permette di rilevarne l’importanza. Pertanto, avanzo l’ipotesi che l’iniziale fascinazione di Celati verso le forme del vaudeville, del music hall e della comicità slapstick, che caratterizza le sue prime opere narrative, sia derivata non solo dall’influsso di Beckett ma anche da quello di Joyce, e segnatamente dall’episodio Circe, XV capitolo dell’Ulisse. Il terzo e ultimo capitolo della tesi riguarda invece la questione dell’oralità. Come la visualità, anche questo tema è stato ampiamente dibattuto dalla critica celatiana; nuovamente, ci si imbatte di continuo in testimonianze e riflessioni su questo tema da parte di Celati. Nella prima parte del capitolo, ci si interroga su come questa questione possa aver influito nell’inserimento di Celati all’interno del nostro canone: è infatti proprio su questo terreno che si gioca il suo posizionamento culturale rispetto alla letteratura commerciale. Celati attribuisce molta importanza all’elemento orale da quando rinuncia, dagli anni Ottanta in poi, a scrivere romanzi. Ciononostante, la sua dizione narrativa fa scuola: a una prima ondata di ‘nipotini celatiani’ di area bolognese, variamente legati al Settantasette, tra cui spicca Tondelli, seguono i cosiddetti scrittori della via Emilia, il cui principale esponente è forse Ermanno Cavazzoni. Se i primi si rifanno apertamente all’oralità comica dei romanzi di Celati degli anni Settanta, e guardano in particolare a Lunario del paradiso, i secondi prendono a lezione la trilogia padana degli anni Ottanta. Questa curiosa ‘biforcazione’ dell’influenza di Celati mi consente di impostare il discorso su una dicotomia, dovuta a un cambio di ‘postura’: parlo della regressione e della semplicità. Sono termini che mutuo da Celati stesso, e che sono stati ampiamente utilizzati dalla critica celatiana. La regressione occupa appunto la parte di carriera che si svolge negli anni Settanta: la mia argomentazione è che tale postura è legata concettualmente all’estensione della dizione narrativa a personaggi marginali e folli; sul piano formale consiste invece in una ripresa di vari moduli espressionistici spesso desunti da grandi autori modernisti. Entra qui in gioco un importante modello di Celati, ovvero Céline; ma, come dimostro, ha posto anche Joyce, ed è in questi anni che Celati riflette appunto sul Finnegans Wake. L’esempio joyciano, inoltre, illumina il nesso fra oralità e parodia, particolarmente caro a Celati che ne tratta in Finzioni occidentali. Fra gli altri punti di riferimento di Celati, un ruolo di primo piano spetta a Sanguineti, il cui Capriccio italiano costituisce un vero esempio di posa regressiva. Il tema della regressione è pertanto centrale nel Celati degli anni Settanta, anche in virtù della sua collaborazione con la rivista satirica «il Caffè», che ospita spesso le riflessioni celatiane su oralità, parodia, satira; altra saggistica a riguardo è rintracciabile sul «Verri». Si tocca qui con mano il laboratorio intellettuale di Celati, negli anni immediatamente precedenti a Finzioni occidentali, e di cui questo libro costituisce contemporaneamente un frutto e una grande sintesi. Alla fine degli anni Settanta, la conclusione della stagione delle contestazioni, la crescente insoddisfazione verso le scritture di questo decennio, l’esaurirsi dell’entusiasmo iniziale per l’insegnamento universitario e la fine del rapporto con Einaudi impongono a Celati il cambio di postura. In questo riposizionamento, Benjamin rimane un punto fermo, ma stavolta Celati si rivolge a un Benjamin più malinconico (condividendo in ciò l’impostazione teorica individuata da Sontag in Sotto il segno di Saturno): quello del Narratore. Pertanto, Celati assume la postura della semplicità, sempre su base orale, che contraddistingue la sua produzione dagli anni Ottanta in poi. È qui che l’influenza di Joyce apparentemente termina, poiché Celati fa una mossa inversa rispetto a quella dell’irlandese: laddove l’Ulisse è interpretabile come la naturale evoluzione delle short stories di Gente di Dublino, Celati sembra piuttosto scomporre i già semplici romanzi degli anni Settanta in novelle e storie di vita quotidiana. Rimane, come unico trait d’union fra i due autori, l’attenzione appunto alla quotidianità, infusa in personaggi accomunati da una certa curiosità verso ciò che li circonda, capaci di distrarsi, il cui modello va indubitabilmente rintracciato in Leopold Bloom: a questo è dedicata una piccola appendice posta alla fine della tesi.
30-apr-2024
XXXVI
2023-2024
Lettere e filosofia (29/10/12-)
Forms of cultural exchange
Rizzante, Massimo
Von Kulessa, Rotraud
GERMANIA
Italiano
Settore L-FIL-LET/11 - Letteratura Italiana Contemporanea
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