In quanto poiesi ibrida sul piano estetico e culturale, frutto della duplice enunciazione di autore e traduttore, oltre che di numerosi interventi intermedi da parte di agenti esterni, il testo letterario tradotto racchiude un dialogo umbratile (Prete 2011) che, se studiato da vicino, può rivelare l’irriducibilità del testo originario in quei suoi tratti di plasticità semantica (Hawthorne 2006) che varcano le frontiere linguistiche e temporali di un canone per confluire, tramite nuove parole, in un altro. In prospettiva diacronica, un simile dialogo si compone di molte voci, ognuna delle quali acquista senso sia nella catena di traduzioni che nel tempo rende fruibili differenti interpretazioni del testo e poetiche del tradurre, sia in quanto complemento concreto dell’ininterrotto lavoro di analisi critica compiuto sul testo dopo la comparsa dell’opera originale. Partendo da queste premesse, il progetto di ricerca prende le mosse dalla recente comparsa, sul mercato editoriale italiano, delle ritraduzioni de L’Étranger (1942) e La Peste (1947) di Albert Camus per i tipi Bompiani: Lo Straniero (2015), ad opera di Sergio Claudio Perroni, e La Peste (2017) di Yasmina Melaouah, che dopo parecchi decenni avviano infine un dialogo con le prime traduzioni, rispettivamente di Alberto Zevi (1947) e Beniamino Dal Fabbro (1948). L’obiettivo è quello di esporre alcune delle forme di somiglianza e divergenza dalle quali sia possibile sondare la postura traduttiva dei rispettivi autori, che su quei testi hanno proiettato inevitabilmente una propria concezione del tradurre, una storia, una poetica individuale, nondimeno figlia del proprio tempo, ossia radicata in un sistema culturale retto da norme linguistiche, editoriali e traduttive con le quali la voce del singolo deve necessariamente misurarsi. Attraverso una metodologia eclettica che si muove tra la stilistica, la semiotica, la linguistica e la narratologia delle forme letterarie, il confronto analitico condotto tra le prime e la seconde traduzioni delinea i profili di lavoro dei quattro traduttori seguendo tre principali direttrici di indagine: in primo luogo, verificare le eventuali discordanze tra le rispettive dichiarazioni paratestuali (reperite in pre/postfazioni, note alla traduzione, saggi, interviste, diari di bordo, etc.) a proposito della strategia adottata e gli esiti dell’operato concreto sui testi; in secondo luogo, esaminare l’imprescindibile manifestarsi in diacronia delle norme traduttive operanti all’atto del tradurre ma attraverso il filtro delle voci individuali, che si sono espresse sotto l’influenza di vincoli differenti e in momenti distinti della vita di questi testi, contribuendo alla loro longevità; infine, testare l’adeguatezza della cosiddetta Retranlsation Hypohtesis avanzata da Berrman e Bensimon (1990) e poi formalizzata in anni più recenti da Chesterman (2000). L’indagine ha dunque interessato tanto i paratesti reperibili che fossero latori di una certa concezione del tradurre, quanto una moltitudine di passi topici estratti dalle tre versioni (i due testi di partenza e i quattro d’arrivo) de L’Étranger e de La Peste che, messi in parallelo, fungessero sul piano quantitativo e qualitativo da campo di ispezione sensibile della realizzazione dei comportamenti individuali. Questi ultimi sono stati studiati per mezzo di un modello analitico fondato, da una parte, sull’isotopia come strumento di coerenza testuale; dall’altra, sulla distinzione tra shift opzionali, obbligatori e non-shifts quale nervo scoperto del processo traduttivo (Pekkanen 2010), accogliendo inoltre proposte molteplici riguardo agli strumenti di descrizione traduttiva (Vinay e Darbelnet 1958; Murtisari 2013; Dussart 2005; Ladmiral 1979, 1997; Harvey 1995). I risultati dell’analisi sono eterogenei e non conformi alla Retranslation Hypothesis. La predominanza del letteralismo nelle prime traduzioni difficilmente si concilia con quello sforzo di acclimatazione rivolto al lettore d’arrivo che l’ipotesi assegnerebbe sistematicamente alle prime traduzioni-introduzioni, benché l’attitudine assimilatrice si rilevi nel conformismo ad alcuni imperativi culturali ed editoriali dell’epoca (l’italianizzazione onomastica; la tendenza interpuntiva nel segno dell’ipotassi; la nobilitazione del lessico). Allo stesso tempo, le due ritraduzioni, pur con spirito assai diverso e sebbene risultino in effetti più attente alle peculiarità stilistiche dei rispettivi prototesti (come vorrebbe l’ipotesi), non adottano tuttavia procedimenti che esibiscano, senza una motivazione fondata, l’alterità del testo straniero, che anzi tendono a naturalizzare in senso fraseologico, senza per questo snaturarlo. Se di miglioramento si possa parlare all’infuori dell’evoluzione dei parametri estetici tra le due epoche (fine anni ’40 del Novecento e metà degli anni ’10 del nuovo millennio), esso andrà riconosciuto, da una parte, nell’integrità oggettivamente superiore delle ritraduzioni in termini di completezza testuale e riproduzione degli stilemi – dato che nelle prime non mancano transfert imprecisi, incompleti o scorretti dovuti a calchi strutturali o lessicali, falsi amici e interpretazioni contrarie al senso degli enunciati; dall’altra parte, le migliorie vanno attribuite senza ombra di dubbio alla professionalizzazione del mestiere e a una maggiore competenza dei ritraduttori come lettori modello dei testi affrontati, che hanno potuto studiare grazie a una straordinaria disponibilità di strumenti critici non esistenti all’epoca delle prime traduzioni. Ciò sembra aver permesso loro di scandagliare le tecniche narrative e le isotopie più significative così da porle come dominanti del proprio lavoro.
Le voci di Camus tra soggettività e ritraduzione / Sanseverino, Giulio. - (2022 Sep 30), pp. -1. [10.15168/11572_353462]
Le voci di Camus tra soggettività e ritraduzione
Sanseverino, Giulio
2022-09-30
Abstract
In quanto poiesi ibrida sul piano estetico e culturale, frutto della duplice enunciazione di autore e traduttore, oltre che di numerosi interventi intermedi da parte di agenti esterni, il testo letterario tradotto racchiude un dialogo umbratile (Prete 2011) che, se studiato da vicino, può rivelare l’irriducibilità del testo originario in quei suoi tratti di plasticità semantica (Hawthorne 2006) che varcano le frontiere linguistiche e temporali di un canone per confluire, tramite nuove parole, in un altro. In prospettiva diacronica, un simile dialogo si compone di molte voci, ognuna delle quali acquista senso sia nella catena di traduzioni che nel tempo rende fruibili differenti interpretazioni del testo e poetiche del tradurre, sia in quanto complemento concreto dell’ininterrotto lavoro di analisi critica compiuto sul testo dopo la comparsa dell’opera originale. Partendo da queste premesse, il progetto di ricerca prende le mosse dalla recente comparsa, sul mercato editoriale italiano, delle ritraduzioni de L’Étranger (1942) e La Peste (1947) di Albert Camus per i tipi Bompiani: Lo Straniero (2015), ad opera di Sergio Claudio Perroni, e La Peste (2017) di Yasmina Melaouah, che dopo parecchi decenni avviano infine un dialogo con le prime traduzioni, rispettivamente di Alberto Zevi (1947) e Beniamino Dal Fabbro (1948). L’obiettivo è quello di esporre alcune delle forme di somiglianza e divergenza dalle quali sia possibile sondare la postura traduttiva dei rispettivi autori, che su quei testi hanno proiettato inevitabilmente una propria concezione del tradurre, una storia, una poetica individuale, nondimeno figlia del proprio tempo, ossia radicata in un sistema culturale retto da norme linguistiche, editoriali e traduttive con le quali la voce del singolo deve necessariamente misurarsi. Attraverso una metodologia eclettica che si muove tra la stilistica, la semiotica, la linguistica e la narratologia delle forme letterarie, il confronto analitico condotto tra le prime e la seconde traduzioni delinea i profili di lavoro dei quattro traduttori seguendo tre principali direttrici di indagine: in primo luogo, verificare le eventuali discordanze tra le rispettive dichiarazioni paratestuali (reperite in pre/postfazioni, note alla traduzione, saggi, interviste, diari di bordo, etc.) a proposito della strategia adottata e gli esiti dell’operato concreto sui testi; in secondo luogo, esaminare l’imprescindibile manifestarsi in diacronia delle norme traduttive operanti all’atto del tradurre ma attraverso il filtro delle voci individuali, che si sono espresse sotto l’influenza di vincoli differenti e in momenti distinti della vita di questi testi, contribuendo alla loro longevità; infine, testare l’adeguatezza della cosiddetta Retranlsation Hypohtesis avanzata da Berrman e Bensimon (1990) e poi formalizzata in anni più recenti da Chesterman (2000). L’indagine ha dunque interessato tanto i paratesti reperibili che fossero latori di una certa concezione del tradurre, quanto una moltitudine di passi topici estratti dalle tre versioni (i due testi di partenza e i quattro d’arrivo) de L’Étranger e de La Peste che, messi in parallelo, fungessero sul piano quantitativo e qualitativo da campo di ispezione sensibile della realizzazione dei comportamenti individuali. Questi ultimi sono stati studiati per mezzo di un modello analitico fondato, da una parte, sull’isotopia come strumento di coerenza testuale; dall’altra, sulla distinzione tra shift opzionali, obbligatori e non-shifts quale nervo scoperto del processo traduttivo (Pekkanen 2010), accogliendo inoltre proposte molteplici riguardo agli strumenti di descrizione traduttiva (Vinay e Darbelnet 1958; Murtisari 2013; Dussart 2005; Ladmiral 1979, 1997; Harvey 1995). I risultati dell’analisi sono eterogenei e non conformi alla Retranslation Hypothesis. La predominanza del letteralismo nelle prime traduzioni difficilmente si concilia con quello sforzo di acclimatazione rivolto al lettore d’arrivo che l’ipotesi assegnerebbe sistematicamente alle prime traduzioni-introduzioni, benché l’attitudine assimilatrice si rilevi nel conformismo ad alcuni imperativi culturali ed editoriali dell’epoca (l’italianizzazione onomastica; la tendenza interpuntiva nel segno dell’ipotassi; la nobilitazione del lessico). Allo stesso tempo, le due ritraduzioni, pur con spirito assai diverso e sebbene risultino in effetti più attente alle peculiarità stilistiche dei rispettivi prototesti (come vorrebbe l’ipotesi), non adottano tuttavia procedimenti che esibiscano, senza una motivazione fondata, l’alterità del testo straniero, che anzi tendono a naturalizzare in senso fraseologico, senza per questo snaturarlo. Se di miglioramento si possa parlare all’infuori dell’evoluzione dei parametri estetici tra le due epoche (fine anni ’40 del Novecento e metà degli anni ’10 del nuovo millennio), esso andrà riconosciuto, da una parte, nell’integrità oggettivamente superiore delle ritraduzioni in termini di completezza testuale e riproduzione degli stilemi – dato che nelle prime non mancano transfert imprecisi, incompleti o scorretti dovuti a calchi strutturali o lessicali, falsi amici e interpretazioni contrarie al senso degli enunciati; dall’altra parte, le migliorie vanno attribuite senza ombra di dubbio alla professionalizzazione del mestiere e a una maggiore competenza dei ritraduttori come lettori modello dei testi affrontati, che hanno potuto studiare grazie a una straordinaria disponibilità di strumenti critici non esistenti all’epoca delle prime traduzioni. Ciò sembra aver permesso loro di scandagliare le tecniche narrative e le isotopie più significative così da porle come dominanti del proprio lavoro.File | Dimensione | Formato | |
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