Nella fase finale del XIX secolo le potenzialità legate allo sfruttamento dell’energia idraulica tramite la tecnologia idroelettrica sembrava poter contribuire a ridurre il divario tra l’economia delle regioni alpine - e dunque del Trentino - e quella delle aree più sviluppate. C’era non solo la speranza, ma la convinzione che il cosiddetto carbone bianco potesse dare nuovo impulso alle attività economiche, migliorando le condizioni di vita delle popolazioni di montagna. Se tuttavia in ambito locale esistevano delle energie imprenditoriali, tanto pubbliche che private, capaci di impegnarsi per la realizzazione di impianti idroelettrici, sussistevano per altro anche elementi che ne ostacolavano il decollo. In un clima di incertezza e di interessi contrapposti furono soprattutto le amministrazioni municipali a promuovere la realizzazione degli impianti, al punto che alla vigilia del primo conflitto mondiale oltre ¾ della potenza installata faceva capo a centrali di proprietà comunale. A tali impianti si affiancavano quelli realizzati da consorzi cooperativi di produzione e distribuzione di energia elettrica. La produzione di energia, così come l’impegno per la realizzazione di impianti idroelettrici era dunque totalmente sotto il controllo di organismi locali e tra questi prevalevano in modo nettissimo i comuni. Lo sviluppo nell’utilizzo del carbone bianco, pure ancora estremamente circoscritto, era visto nell’ottica del vantaggio diretto ed indiretto che avrebbe potuto produrre per le comunità locali, senza per altro escludere l’esportazione di energia. Totalmente diverso lo scenario che si aprì dopo il conflitto e l’annessione all’Italia. La mancanza di carbone aveva costituito un impedimento strutturale per l’industria dell’Italia postunitaria, pertanto l’accaparramento ed il controllo dei bacini idroelettrici, che potevano compensare la carenza di combustibili fossili, rivestiva un’importanza strategica per i maggiori gruppi industriali nazionali. Le holdings elettrocommerciali (SIP, Edison e SADE) che erano ben dotate sotto il profilo finanziario e tecnico e che operavano in un contesto sostanzialmente oligopolistico, considerarono le “nuove province”, con le loro risorse idriche inutilizzate, terra di conquista dove realizzare i propri progetti. Proprio tali gruppi, affiancati da alcuni auto-produttori, si dimostrarono particolarmente aggressivi nell’accaparrarsi le concessioni per realizzare nuovi impianti, principalmente nell’intento di esportare l’energia prodotta verso le aree a maggior consumo della pianura padana. Tra il 1913 e il 1942 la potenza installata nelle centrali trentine aumentò di quasi 15 volte, passando da 21.821 a 322.180 kVA. Oltre il 75 % dell’industria elettrica trentina era però passata direttamente in mano alle grandi elettrocommerciali. Unica impresa locale di peso era rimasta la municipalizzata del comune di Trento, la SIT, mentre di poco rilievo era la produzione di alcune altre piccole centrali comunali e cooperative. Nel periodo infrabellico l’unica sostanziale ricaduta che la corsa alla realizzazione dei grandi impianti idroelettrici ebbe per la società trentina fu quella legata all’assorbimento di manodopera, che si rivelò particolarmente importante sia durante gli anni della crisi deflazionistica che durante la fase della grande depressione. Il secondo dopoguerra avrebbe invece conosciuto un evolversi meno monolitico dello sviluppo idroelettrico nel Trentino, riconducibile fondamentalmente a tre diverse fasi: dapprima quella che vide il completamento di una serie di grandi impianti realizzati dalle più potenti società elettriche, nonostante il tentativo della legislazione regionale di fornire un’impostazione autonoma alla produzione idroelettrica, quindi quella della nazionalizzazione, con la scomparsa del ramo elettrico della SIT e di numerose piccole aziende elettriche comunali e infine la fase più recente, motivata sia dai nuovi indirizzi legislativi comunitari e nazionali sia dalle norme di attuazione della nuova autonomia delle province di Trento e Bolzano, che hanno aperto nuovi spazi alle imprese energetiche tanto di natura pubblica che privata. In particolare a seguito del decreto legislativo 7 novembre 2006, n. 289, che ha affidato alle Province autonome di Bolzano e Trento le funzioni già esercitate dallo Stato in materia di grandi derivazioni a scopo idroelettrico, la Provincia autonoma di Trento con legge provinciale 27 luglio 2007, n.14, si assumeva l’impegno di intervenire direttamente nell’esercizio delle grandi derivazioni a scopo idroelettrico. La produzione idroelettrica era dunque riportata come ai suoi esordi, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, sotto il controllo delle istituzioni locali. Attraverso due società a controllo pubblico – Primiero energia e Dolomiti energia – la Provincia autonoma di Trento ha avviato un tragitto finalizzato a mettere gli impianti idroelettrici nella disponibilità di quelle realtà che dalla loro realizzazione avevano dovuto sostenere una serie di costi, legati al delicato equilibrio ambientale, senza ricavarne spesso evidenti benefici di natura economica. Fino a questo momento di svolta nell’assetto proprietario degli impianti, le uniche ricadute che le comunità locali hanno avuto dall’imponente sfruttamento delle risorse idrauliche a scopo idroelettrico è stato quello garantito, a partire dal 1954, dal versamento di sovracanoni sulla produzione elettrica da parte dei titolari di grandi derivazioni ai consorzi di comuni toccati dalle opere idroelettriche. In base infatti alla legge n. 959 del 27 dicembre1953, sono stati istituiti i Consorzi dei bacini imbriferi montani - BIM - , che hanno garantito un’equa redistribuzione dei sovracanoni, costituendo una fonte di finanziamento importante per molte comunità trentine, rendendosi compartecipi di una trasformazione economica e sociale in senso modernizzante anche delle realtà più periferiche.
La parabola idroelettrica trentina: dalla "colonizzazione" esogena al controllo endogeno
Leonardi, Andrea
2014-01-01
Abstract
Nella fase finale del XIX secolo le potenzialità legate allo sfruttamento dell’energia idraulica tramite la tecnologia idroelettrica sembrava poter contribuire a ridurre il divario tra l’economia delle regioni alpine - e dunque del Trentino - e quella delle aree più sviluppate. C’era non solo la speranza, ma la convinzione che il cosiddetto carbone bianco potesse dare nuovo impulso alle attività economiche, migliorando le condizioni di vita delle popolazioni di montagna. Se tuttavia in ambito locale esistevano delle energie imprenditoriali, tanto pubbliche che private, capaci di impegnarsi per la realizzazione di impianti idroelettrici, sussistevano per altro anche elementi che ne ostacolavano il decollo. In un clima di incertezza e di interessi contrapposti furono soprattutto le amministrazioni municipali a promuovere la realizzazione degli impianti, al punto che alla vigilia del primo conflitto mondiale oltre ¾ della potenza installata faceva capo a centrali di proprietà comunale. A tali impianti si affiancavano quelli realizzati da consorzi cooperativi di produzione e distribuzione di energia elettrica. La produzione di energia, così come l’impegno per la realizzazione di impianti idroelettrici era dunque totalmente sotto il controllo di organismi locali e tra questi prevalevano in modo nettissimo i comuni. Lo sviluppo nell’utilizzo del carbone bianco, pure ancora estremamente circoscritto, era visto nell’ottica del vantaggio diretto ed indiretto che avrebbe potuto produrre per le comunità locali, senza per altro escludere l’esportazione di energia. Totalmente diverso lo scenario che si aprì dopo il conflitto e l’annessione all’Italia. La mancanza di carbone aveva costituito un impedimento strutturale per l’industria dell’Italia postunitaria, pertanto l’accaparramento ed il controllo dei bacini idroelettrici, che potevano compensare la carenza di combustibili fossili, rivestiva un’importanza strategica per i maggiori gruppi industriali nazionali. Le holdings elettrocommerciali (SIP, Edison e SADE) che erano ben dotate sotto il profilo finanziario e tecnico e che operavano in un contesto sostanzialmente oligopolistico, considerarono le “nuove province”, con le loro risorse idriche inutilizzate, terra di conquista dove realizzare i propri progetti. Proprio tali gruppi, affiancati da alcuni auto-produttori, si dimostrarono particolarmente aggressivi nell’accaparrarsi le concessioni per realizzare nuovi impianti, principalmente nell’intento di esportare l’energia prodotta verso le aree a maggior consumo della pianura padana. Tra il 1913 e il 1942 la potenza installata nelle centrali trentine aumentò di quasi 15 volte, passando da 21.821 a 322.180 kVA. Oltre il 75 % dell’industria elettrica trentina era però passata direttamente in mano alle grandi elettrocommerciali. Unica impresa locale di peso era rimasta la municipalizzata del comune di Trento, la SIT, mentre di poco rilievo era la produzione di alcune altre piccole centrali comunali e cooperative. Nel periodo infrabellico l’unica sostanziale ricaduta che la corsa alla realizzazione dei grandi impianti idroelettrici ebbe per la società trentina fu quella legata all’assorbimento di manodopera, che si rivelò particolarmente importante sia durante gli anni della crisi deflazionistica che durante la fase della grande depressione. Il secondo dopoguerra avrebbe invece conosciuto un evolversi meno monolitico dello sviluppo idroelettrico nel Trentino, riconducibile fondamentalmente a tre diverse fasi: dapprima quella che vide il completamento di una serie di grandi impianti realizzati dalle più potenti società elettriche, nonostante il tentativo della legislazione regionale di fornire un’impostazione autonoma alla produzione idroelettrica, quindi quella della nazionalizzazione, con la scomparsa del ramo elettrico della SIT e di numerose piccole aziende elettriche comunali e infine la fase più recente, motivata sia dai nuovi indirizzi legislativi comunitari e nazionali sia dalle norme di attuazione della nuova autonomia delle province di Trento e Bolzano, che hanno aperto nuovi spazi alle imprese energetiche tanto di natura pubblica che privata. In particolare a seguito del decreto legislativo 7 novembre 2006, n. 289, che ha affidato alle Province autonome di Bolzano e Trento le funzioni già esercitate dallo Stato in materia di grandi derivazioni a scopo idroelettrico, la Provincia autonoma di Trento con legge provinciale 27 luglio 2007, n.14, si assumeva l’impegno di intervenire direttamente nell’esercizio delle grandi derivazioni a scopo idroelettrico. La produzione idroelettrica era dunque riportata come ai suoi esordi, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, sotto il controllo delle istituzioni locali. Attraverso due società a controllo pubblico – Primiero energia e Dolomiti energia – la Provincia autonoma di Trento ha avviato un tragitto finalizzato a mettere gli impianti idroelettrici nella disponibilità di quelle realtà che dalla loro realizzazione avevano dovuto sostenere una serie di costi, legati al delicato equilibrio ambientale, senza ricavarne spesso evidenti benefici di natura economica. Fino a questo momento di svolta nell’assetto proprietario degli impianti, le uniche ricadute che le comunità locali hanno avuto dall’imponente sfruttamento delle risorse idrauliche a scopo idroelettrico è stato quello garantito, a partire dal 1954, dal versamento di sovracanoni sulla produzione elettrica da parte dei titolari di grandi derivazioni ai consorzi di comuni toccati dalle opere idroelettriche. In base infatti alla legge n. 959 del 27 dicembre1953, sono stati istituiti i Consorzi dei bacini imbriferi montani - BIM - , che hanno garantito un’equa redistribuzione dei sovracanoni, costituendo una fonte di finanziamento importante per molte comunità trentine, rendendosi compartecipi di una trasformazione economica e sociale in senso modernizzante anche delle realtà più periferiche.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione