Dopo una premessa metodologica che afferma la necessità (in un mondo globalizzato dove gli scambi di informazioni diventano sempre più rapidi e le strutture di produzione collegano luoghi un tempo lontanissimi) di una prospettiva sovranazionale per capire le dinamiche del sistema letterario contemporaneo, l’introduzione riassume brevemente le alterne fortune del concetto di “realismo” dalla sistemazione effettuata negli anni Cinquanta da Auerbach e Lukács a oggi. L’ipotesi è che, venuta meno la fiducia nell’esistenza di una «verità» esterna e immutabile, anche la fiducia nella possibilità del linguaggio di rappresentare qualcosa che non sia il linguaggio stesso sia crollata. Identificato in questo atteggiamento il momento di continuità tra Strutturalismo e Post-strutturalismo, si esaminano le successive evoluzioni sociali e culturali. L’analisi dell’ultimo Barthes, quello della Preparazione del romanzo, mostra l’inversione di rotta di uno dei grandi teorici del Postrutturalismo, che anticipava nel 1980 tendenze oggi venute allo scoperto. Gli ultimi vent’anni hanno infatti visto aumentare progressivamente la «fame di realtà» del pubblico, come testimoniano le scelte di marketing (bandelle e quarte di copertina) che tentano i potenziali acquirenti con «storie vere» o biografie. Ma sono storie e biografie tipicamente romanzesche nella forma e nei dispositivi, anche se non vengono vendute o fruite (e spesso nemmeno prodotte) come tali. Ciò porta a definire una modalità narrativa che chiamo «veridica», poiché l’illusione realistica è particolarmente forte, anche grazie alla commistione di figure attanziali (per cui l’autore è anche narratore e protagonista), modi e stilemi (autobiografia, reportage). La seconda linea di realismo che individuo è quella «convenzionalista», che si basa su strategie già note e sul già detto narrativo (stilemi tradizionalmente ottocenteschi, ricorso al «romanzesco») per riuscire a parlare del mondo, azzerando in entrambi i casi le tentazioni autoreferenziali e metadiscorsive del Postmodernismo. Il primo capitolo si concentra su Pastorale americana (1998) di Philip Roth. Al centro della prima parte c’è l’inquadramento dell’opera di Roth secondo la prospettiva illustrata nell’introduzione. La quadrilogia Zuckerman Bound (1977-1984) vede la nascita del personaggio di Zuckerman: la confusione di ruoli tra personaggio e autore, necessaria a Roth per illustrare il ruolo nell’artista nella società contemporanea (tema portante di Zuckerman Bound), diventa un elemento centrale nei libri successivi: il personaggio diventa una maschera da indossare o, con Kundera (al quale era dedicato Lo scrittore fantasma, il primo libro di Zuckerman), un «io sperimentale», ma come fare, a questo punto, per dichiarare l’estraneità dell’uno con l’altro? Come evitare che le azioni di Zuckerman siano attribuite a Roth (e viceversa)? Il primo tentativo per uscire da questa impasse è La controvita (1986), un libro fortemente postmoderno che distrugge la trama, la continuità e la coerenza narrative per interrompere questo cortocircuito, cercando di rendere opaco un codice che era diventato fin troppo trasparente. Il fallimento del progetto conduce il romanziere americano a scrivere una quadrilogia il cui protagonista è proprio Philip Roth: dopo la scelta iper-romanzesca di La controvita, I fatti. Autobiografia di un romanziere e Patrimonio riconducono il lettore nello spazio autobiografico, personale, di uno scrittore che vuole parlare di sé senza filtri, senza maschere. Ma la sincerità dell’operazione è subito messa in discussione (I fatti riporta, in apertura e chiusura, due lettere di Zuckerman che incorniciano la narrazione, dichiarando l’impossibilità di un racconto fattuale) e, privato del romanzesco, il racconto rimane intrappolato in dettagli senza senso e oggetti senza voce. Operazione Shylock (1991) si muove in direzione opposta, creando una spy story in cui protagonista, lo stesso Philip Roth, si trova invischiato in una macchinazione internazionale. La separazione di livelli è rigida (autentico lo sfondo, romanzesco e patentemente falso il primo piano) e se in tal modo è possibile distinguere tra «vero» e «falso», il romanzo che si crea è debole e sfilacciato. Dunque: i primi romanzi della quadrilogia di Roth miravano a illustrare la distanza tra personaggio fittizio e autore («io non sono Zuckerman»), mentre con Operazione Shylock Roth vuole sancire la distanza tra tutti i personaggi, anche quelli reali, e i loro creatori («io non sono quel Roth»). I problemi che Roth affrontava in questo periodo sono due: da un lato la confusione tra autore e personaggio, tra maschera e attore, e dall’altra la possibilità di raccontare la storia, la società, in una parola: la realtà. La mia ipotesi è che, dopo la quadrilogia di Zuckerman, Roth abbia cercato una via al di fuori del romanzo e infine non l’abbia trovata: la storia della sua produzione degli anni Ottanta e dei primi Novanta è la storia di un fallimento, e a risolvere l’impasse non arriverà «Philip Roth» ma proprio quello Zuckerman che si voleva in tutti i modi distruggere. Con Pastorale Americana Roth torna al romanzo tout court: Zuckerman è il narratore, e proprio grazie al suo statuto di «doppio» di Roth egli può conservare il sottile filo rosso della fiction che unisce realtà e invenzione. l’incertezza referenziale (è vero o falso?) che accompagna questo personaggio è la chiave per mettere in piedi un sistema narrativo che si basa sull’alternanza di vero e falso (non più finto). L’utilizzo di una prefazione narrativizzata, cioè inserita nel testo del romanzo, della quale l’autore è Zuckerman, contribuisce allo spaesamento del lettore, perché anche materialmente i confini del testo sono elisi. Il secondo capitolo si concentra su Il mal di Montano di Enrique Vila-Matas (2002) e cerca di comprendere quanto peso abbia nel funzionamento del realismo veridico l’istituzione di un patto narrativo diverso dai soliti, in cui si stabilisce che tra autore, protagonista e narratore non vi è né un rapporto di identità (A = P) né uno di non-identità (A ≠ P), ma un rapporto irriducibilmente altalenante, di approssimazione (A ≈ P). Inoltre il romanzo in questione permette di illustrare il crollo del meccanismo narrativo postmodernista, basato sulla citazione, sul riciclo e sul metadiscorso. Nel terzo capitolo l’analisi riguarda un esempio tra i più puri di letteratura veridica: Troppi paradisi di Walter Siti (2006). In questo romanzo si vede chiaramente come la tentazione veridica si accompagni al crollo degli aspetti allegorici del testo, con la conseguente generazione di un romanzo privo di profondità, in cui tutto è in superficie. In questo contesto viene definito un meccanismo chiave per il funzionamento dei testi veridici, l’effetto di vero: mentre l’effetto di realtà si basa sulla connotazione degli oggetti, l’effetto di vero è pura denotazione: l’oggetto non dice nulla (nemmeno «io sono la realtà»), si limita ad esistere. Ciò spiega l’ipertrofia nella nominazione (marche, nomi propri, precisione spaziale e cronologica…) che si è riscontrata in tutti i romanzi fin qui analizzati. Una volta stabilito che le tecniche di Troppi paradisi sono riprese da quelle dei reality show (ma lo stesso era già stato visto per Pastorale americana), è possibile concludere che il realismo veridico sia una mimesi della realtà televisiva, da cui tenta di vaccinarci inoculando una versione depotenziata del virus del reality. L’indagine sui romanzi convenzionalisti parte da Underworld di Don DeLillo, un romanzo in cui il narratore esibisce il pieno controllo che ha sul materiale narrativo: il sottile filo rosso che unisce le varie parti è continuamente spezzato e riannodato, il lettore non può orientarsi nell’immensa costruzione se non con l’aiuto del narratore. Il romanzo sottolinea, negandolo, il bisogno di una trama, di una chiave di lettura, mentre i personaggi s’interrogano spesso sulle proprietà referenziali del linguaggio. La conclusione sembra disperante: tra linguaggio e mondo c’è uno scarto abissale. Ma, come Calvino prima di lui, DeLillo riesce ad aggirare il problema sfruttando la natura convenzionale dei segni: essendo il linguaggio di tutti, tutti possono comprenderlo. Non a caso Underworld è il romanzo di tutti e tutta la società americana vi trova posto: He speaks in your voice, American, è la frase con cui si apre il romanzo, una frase dal doppio significato («[egli] parla la tua lingua, l’americano», ma anche «[egli] parla a nome tuo, Americano») che apre sul significato universale del testo, capace di riassumere un intero mondo, quello del consumismo americano. Infatti in Underworld i veri protagonisti non sono gli uomini, ma gli oggetti, intorno ai quali ruotano le vicende dei personaggi umani, verso cui gli umani tendono e dai quali sono a volte respinti. Le particelle elementari di Michel Houellebecq ci riporta nel solco di un romanzo «tradizionale»: e anzi il testo cerca proprio di coniugare naturalismo e romanzo, Zola e Balzac. La struttura del testo (romanzo con cornice) evidenzia la polarizzazione tra i due elementi, ma a farla da padrone è il grande realismo ottocentesco: l’individuale continene il generale, sulla scena si muovono «tipi» romanzeschi e il tentativo di costruire un affresco del presente, e di storicizzarlo, passa per la ricostruzione di una macchina narrativa ottocentesca. Il romanzo convenzionalista, dunque, non è necessariamente innovativo a livello formale, e Le benevole di Jonathan Littell lo dimostra chiaramente: un testo prevedibile nella costruzione riesce a rappresentare il presente con una lucidità rara. Ciò avviene attraverso l’inserimento di stilemi e tematiche novecentesche (moderniste e postmoderniste) all’interno di strutture narrative ottocentesche (il grande romanzo storico, specialmente russo, come Guerra e pace). Da un lato il sottotesto tragico (il modello è Le Eumenidi) richiama la problematica relativista: venuto meno un metro unico di giudizio, è possibile definire «giusto» e «sbagliato», «colpa» e «innocenza»? E, se sì, su quali basi? Su questa riflessione si innesta la parabola del protagonista, Aue, e con lui della Germania intera, verso lo stato di natura (percorso inverso rispetto a quello delle Eumenidi), ma l’idea di «male assoluto» è rifiutata: i nazisti non si muovono per odio, quanto per inerzia, seguono la corrente, fanno quello che fanno gli altri. A livello narrativo questa dispersione centrifuga (le singole vite che si muovono in direzioni diverse) è tenuta insieme dalla spinta centripeta delle strutture romanzesche ottocentesche. A questo punto si definisce il realismo convenzionalista, sulla scorta del «fantastico da biblioteca» di Michel Foucault, un «realismo da biblioteca», costruito su altri libri o meglio, sull’idea di realismo che gli altri libri hanno dato al pubblico. La conclusione illustra come il realismo convenzionalista chiuda un’epoca: quella dell’avanguardia permanente in cui l’arte si trova dai tempi delle avanguardie storiche. Dopo aver definito convenzionalismo e veridicità come due fasi o poli di un medesimo sistema che non entrano quasi mai in opposizione, ma possono sorreggersi a vicenda (come dimostra il caso di Roth), l’avviso ai lettori è che le ipotesi del saggio dovranno attendere il giudizio della Storia per essere verificate.
Il vero e il convenzionale
Tirinanzi De Medici, Carlo
2012-01-01
Abstract
Dopo una premessa metodologica che afferma la necessità (in un mondo globalizzato dove gli scambi di informazioni diventano sempre più rapidi e le strutture di produzione collegano luoghi un tempo lontanissimi) di una prospettiva sovranazionale per capire le dinamiche del sistema letterario contemporaneo, l’introduzione riassume brevemente le alterne fortune del concetto di “realismo” dalla sistemazione effettuata negli anni Cinquanta da Auerbach e Lukács a oggi. L’ipotesi è che, venuta meno la fiducia nell’esistenza di una «verità» esterna e immutabile, anche la fiducia nella possibilità del linguaggio di rappresentare qualcosa che non sia il linguaggio stesso sia crollata. Identificato in questo atteggiamento il momento di continuità tra Strutturalismo e Post-strutturalismo, si esaminano le successive evoluzioni sociali e culturali. L’analisi dell’ultimo Barthes, quello della Preparazione del romanzo, mostra l’inversione di rotta di uno dei grandi teorici del Postrutturalismo, che anticipava nel 1980 tendenze oggi venute allo scoperto. Gli ultimi vent’anni hanno infatti visto aumentare progressivamente la «fame di realtà» del pubblico, come testimoniano le scelte di marketing (bandelle e quarte di copertina) che tentano i potenziali acquirenti con «storie vere» o biografie. Ma sono storie e biografie tipicamente romanzesche nella forma e nei dispositivi, anche se non vengono vendute o fruite (e spesso nemmeno prodotte) come tali. Ciò porta a definire una modalità narrativa che chiamo «veridica», poiché l’illusione realistica è particolarmente forte, anche grazie alla commistione di figure attanziali (per cui l’autore è anche narratore e protagonista), modi e stilemi (autobiografia, reportage). La seconda linea di realismo che individuo è quella «convenzionalista», che si basa su strategie già note e sul già detto narrativo (stilemi tradizionalmente ottocenteschi, ricorso al «romanzesco») per riuscire a parlare del mondo, azzerando in entrambi i casi le tentazioni autoreferenziali e metadiscorsive del Postmodernismo. Il primo capitolo si concentra su Pastorale americana (1998) di Philip Roth. Al centro della prima parte c’è l’inquadramento dell’opera di Roth secondo la prospettiva illustrata nell’introduzione. La quadrilogia Zuckerman Bound (1977-1984) vede la nascita del personaggio di Zuckerman: la confusione di ruoli tra personaggio e autore, necessaria a Roth per illustrare il ruolo nell’artista nella società contemporanea (tema portante di Zuckerman Bound), diventa un elemento centrale nei libri successivi: il personaggio diventa una maschera da indossare o, con Kundera (al quale era dedicato Lo scrittore fantasma, il primo libro di Zuckerman), un «io sperimentale», ma come fare, a questo punto, per dichiarare l’estraneità dell’uno con l’altro? Come evitare che le azioni di Zuckerman siano attribuite a Roth (e viceversa)? Il primo tentativo per uscire da questa impasse è La controvita (1986), un libro fortemente postmoderno che distrugge la trama, la continuità e la coerenza narrative per interrompere questo cortocircuito, cercando di rendere opaco un codice che era diventato fin troppo trasparente. Il fallimento del progetto conduce il romanziere americano a scrivere una quadrilogia il cui protagonista è proprio Philip Roth: dopo la scelta iper-romanzesca di La controvita, I fatti. Autobiografia di un romanziere e Patrimonio riconducono il lettore nello spazio autobiografico, personale, di uno scrittore che vuole parlare di sé senza filtri, senza maschere. Ma la sincerità dell’operazione è subito messa in discussione (I fatti riporta, in apertura e chiusura, due lettere di Zuckerman che incorniciano la narrazione, dichiarando l’impossibilità di un racconto fattuale) e, privato del romanzesco, il racconto rimane intrappolato in dettagli senza senso e oggetti senza voce. Operazione Shylock (1991) si muove in direzione opposta, creando una spy story in cui protagonista, lo stesso Philip Roth, si trova invischiato in una macchinazione internazionale. La separazione di livelli è rigida (autentico lo sfondo, romanzesco e patentemente falso il primo piano) e se in tal modo è possibile distinguere tra «vero» e «falso», il romanzo che si crea è debole e sfilacciato. Dunque: i primi romanzi della quadrilogia di Roth miravano a illustrare la distanza tra personaggio fittizio e autore («io non sono Zuckerman»), mentre con Operazione Shylock Roth vuole sancire la distanza tra tutti i personaggi, anche quelli reali, e i loro creatori («io non sono quel Roth»). I problemi che Roth affrontava in questo periodo sono due: da un lato la confusione tra autore e personaggio, tra maschera e attore, e dall’altra la possibilità di raccontare la storia, la società, in una parola: la realtà. La mia ipotesi è che, dopo la quadrilogia di Zuckerman, Roth abbia cercato una via al di fuori del romanzo e infine non l’abbia trovata: la storia della sua produzione degli anni Ottanta e dei primi Novanta è la storia di un fallimento, e a risolvere l’impasse non arriverà «Philip Roth» ma proprio quello Zuckerman che si voleva in tutti i modi distruggere. Con Pastorale Americana Roth torna al romanzo tout court: Zuckerman è il narratore, e proprio grazie al suo statuto di «doppio» di Roth egli può conservare il sottile filo rosso della fiction che unisce realtà e invenzione. l’incertezza referenziale (è vero o falso?) che accompagna questo personaggio è la chiave per mettere in piedi un sistema narrativo che si basa sull’alternanza di vero e falso (non più finto). L’utilizzo di una prefazione narrativizzata, cioè inserita nel testo del romanzo, della quale l’autore è Zuckerman, contribuisce allo spaesamento del lettore, perché anche materialmente i confini del testo sono elisi. Il secondo capitolo si concentra su Il mal di Montano di Enrique Vila-Matas (2002) e cerca di comprendere quanto peso abbia nel funzionamento del realismo veridico l’istituzione di un patto narrativo diverso dai soliti, in cui si stabilisce che tra autore, protagonista e narratore non vi è né un rapporto di identità (A = P) né uno di non-identità (A ≠ P), ma un rapporto irriducibilmente altalenante, di approssimazione (A ≈ P). Inoltre il romanzo in questione permette di illustrare il crollo del meccanismo narrativo postmodernista, basato sulla citazione, sul riciclo e sul metadiscorso. Nel terzo capitolo l’analisi riguarda un esempio tra i più puri di letteratura veridica: Troppi paradisi di Walter Siti (2006). In questo romanzo si vede chiaramente come la tentazione veridica si accompagni al crollo degli aspetti allegorici del testo, con la conseguente generazione di un romanzo privo di profondità, in cui tutto è in superficie. In questo contesto viene definito un meccanismo chiave per il funzionamento dei testi veridici, l’effetto di vero: mentre l’effetto di realtà si basa sulla connotazione degli oggetti, l’effetto di vero è pura denotazione: l’oggetto non dice nulla (nemmeno «io sono la realtà»), si limita ad esistere. Ciò spiega l’ipertrofia nella nominazione (marche, nomi propri, precisione spaziale e cronologica…) che si è riscontrata in tutti i romanzi fin qui analizzati. Una volta stabilito che le tecniche di Troppi paradisi sono riprese da quelle dei reality show (ma lo stesso era già stato visto per Pastorale americana), è possibile concludere che il realismo veridico sia una mimesi della realtà televisiva, da cui tenta di vaccinarci inoculando una versione depotenziata del virus del reality. L’indagine sui romanzi convenzionalisti parte da Underworld di Don DeLillo, un romanzo in cui il narratore esibisce il pieno controllo che ha sul materiale narrativo: il sottile filo rosso che unisce le varie parti è continuamente spezzato e riannodato, il lettore non può orientarsi nell’immensa costruzione se non con l’aiuto del narratore. Il romanzo sottolinea, negandolo, il bisogno di una trama, di una chiave di lettura, mentre i personaggi s’interrogano spesso sulle proprietà referenziali del linguaggio. La conclusione sembra disperante: tra linguaggio e mondo c’è uno scarto abissale. Ma, come Calvino prima di lui, DeLillo riesce ad aggirare il problema sfruttando la natura convenzionale dei segni: essendo il linguaggio di tutti, tutti possono comprenderlo. Non a caso Underworld è il romanzo di tutti e tutta la società americana vi trova posto: He speaks in your voice, American, è la frase con cui si apre il romanzo, una frase dal doppio significato («[egli] parla la tua lingua, l’americano», ma anche «[egli] parla a nome tuo, Americano») che apre sul significato universale del testo, capace di riassumere un intero mondo, quello del consumismo americano. Infatti in Underworld i veri protagonisti non sono gli uomini, ma gli oggetti, intorno ai quali ruotano le vicende dei personaggi umani, verso cui gli umani tendono e dai quali sono a volte respinti. Le particelle elementari di Michel Houellebecq ci riporta nel solco di un romanzo «tradizionale»: e anzi il testo cerca proprio di coniugare naturalismo e romanzo, Zola e Balzac. La struttura del testo (romanzo con cornice) evidenzia la polarizzazione tra i due elementi, ma a farla da padrone è il grande realismo ottocentesco: l’individuale continene il generale, sulla scena si muovono «tipi» romanzeschi e il tentativo di costruire un affresco del presente, e di storicizzarlo, passa per la ricostruzione di una macchina narrativa ottocentesca. Il romanzo convenzionalista, dunque, non è necessariamente innovativo a livello formale, e Le benevole di Jonathan Littell lo dimostra chiaramente: un testo prevedibile nella costruzione riesce a rappresentare il presente con una lucidità rara. Ciò avviene attraverso l’inserimento di stilemi e tematiche novecentesche (moderniste e postmoderniste) all’interno di strutture narrative ottocentesche (il grande romanzo storico, specialmente russo, come Guerra e pace). Da un lato il sottotesto tragico (il modello è Le Eumenidi) richiama la problematica relativista: venuto meno un metro unico di giudizio, è possibile definire «giusto» e «sbagliato», «colpa» e «innocenza»? E, se sì, su quali basi? Su questa riflessione si innesta la parabola del protagonista, Aue, e con lui della Germania intera, verso lo stato di natura (percorso inverso rispetto a quello delle Eumenidi), ma l’idea di «male assoluto» è rifiutata: i nazisti non si muovono per odio, quanto per inerzia, seguono la corrente, fanno quello che fanno gli altri. A livello narrativo questa dispersione centrifuga (le singole vite che si muovono in direzioni diverse) è tenuta insieme dalla spinta centripeta delle strutture romanzesche ottocentesche. A questo punto si definisce il realismo convenzionalista, sulla scorta del «fantastico da biblioteca» di Michel Foucault, un «realismo da biblioteca», costruito su altri libri o meglio, sull’idea di realismo che gli altri libri hanno dato al pubblico. La conclusione illustra come il realismo convenzionalista chiuda un’epoca: quella dell’avanguardia permanente in cui l’arte si trova dai tempi delle avanguardie storiche. Dopo aver definito convenzionalismo e veridicità come due fasi o poli di un medesimo sistema che non entrano quasi mai in opposizione, ma possono sorreggersi a vicenda (come dimostra il caso di Roth), l’avviso ai lettori è che le ipotesi del saggio dovranno attendere il giudizio della Storia per essere verificate.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione