Il saggio esplora la funzione e l’immagine dell’attore nelle più importanti esperienze teatrali degli ultimi due secoli. Con un costante raffronto fra prassi scenica e riflessioni teoriche, l’arte della recitazione viene indagata a partire dal Romanticismo, epoca in cui si afferma il mito dell’attore ispirato, che recita lasciandosi trasportare dall’impeto del sentimento. Una visione idealistica che sarà gradualmente soppiantata dalla ricerca di un maggior equilibrio fra spontaneità e controllo, partecipazione emotiva e distacco. Il dibattito fra emozionalisti e fautori della recitazione a freddo culmina nell’ultimo ventennio del secolo, arricchendosi delle nuove riflessioni sullo sdoppiamento di personalità della nascente psicologia. Soprattutto in Italia, l’Ottocento resta comunque l’epoca del grande attore, che predomina sugli altri elementi scenici e tende a riportare a sé il personaggio, catturando l’attenzione del pubblico grazie alla sua immediatezza comunicativa. Nel tentativo di legittimare e codificare un’arte ancora affidata all’apprendistato diretto, nel corso del secolo fiorirono un po’ in tutta Europa vari trattati di recitazione. La fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento furono un crocevia di diverse concezioni, dalla limitazione dell’autonomia creativa dell’attore a vantaggio dell’emergente figura del regista all’auspicata dissolvenza dell’attore, presenza ingombrante e inaffidabile, cui tende il movimento simbolista; dalla rivalutazione espressionista del ritmo vitale dell’attore come potenziale energetico alla svolta radicale di Stanislavskij e all’attore estraniato di Brecht. In generale, la riteatralizzazione della scena portata avanti nella prima metà del Novecento passa attraverso il corpo dell’attore, che diventa lo strumento privilegiato di un linguaggio complesso, preludendo alle sperimentazioni delle seconde avanguardie.
L’arte dell’attore dal Romanticismo a Brecht
Pietrini, Sandra
2009-01-01
Abstract
Il saggio esplora la funzione e l’immagine dell’attore nelle più importanti esperienze teatrali degli ultimi due secoli. Con un costante raffronto fra prassi scenica e riflessioni teoriche, l’arte della recitazione viene indagata a partire dal Romanticismo, epoca in cui si afferma il mito dell’attore ispirato, che recita lasciandosi trasportare dall’impeto del sentimento. Una visione idealistica che sarà gradualmente soppiantata dalla ricerca di un maggior equilibrio fra spontaneità e controllo, partecipazione emotiva e distacco. Il dibattito fra emozionalisti e fautori della recitazione a freddo culmina nell’ultimo ventennio del secolo, arricchendosi delle nuove riflessioni sullo sdoppiamento di personalità della nascente psicologia. Soprattutto in Italia, l’Ottocento resta comunque l’epoca del grande attore, che predomina sugli altri elementi scenici e tende a riportare a sé il personaggio, catturando l’attenzione del pubblico grazie alla sua immediatezza comunicativa. Nel tentativo di legittimare e codificare un’arte ancora affidata all’apprendistato diretto, nel corso del secolo fiorirono un po’ in tutta Europa vari trattati di recitazione. La fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento furono un crocevia di diverse concezioni, dalla limitazione dell’autonomia creativa dell’attore a vantaggio dell’emergente figura del regista all’auspicata dissolvenza dell’attore, presenza ingombrante e inaffidabile, cui tende il movimento simbolista; dalla rivalutazione espressionista del ritmo vitale dell’attore come potenziale energetico alla svolta radicale di Stanislavskij e all’attore estraniato di Brecht. In generale, la riteatralizzazione della scena portata avanti nella prima metà del Novecento passa attraverso il corpo dell’attore, che diventa lo strumento privilegiato di un linguaggio complesso, preludendo alle sperimentazioni delle seconde avanguardie.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione