Il volume si apre riflettendo sull’architettura del paesaggio, disciplina la cui definizione è quanto di più ambiguo si possa immaginare. Parlare di “architettura del paesaggio” potrebbe sembrare una palese contraddizione, un contrasto logico, un’incoerenza, in quanto si nota come i due termini della locuzione, anziché concordare, tendano a distinguersi: l’architettura, infatti, è la tecnica o l’arte di progettare, mentre il paesaggio è l’esistente, il divenuto, una raccolta di elementi culturali che proviene da architetti ideali che così l’hanno dedicato attraverso i millenni. È qualcosa d’ideato nel tempo e giunto a noi come opera completa che è il suo passato nobile, perché il progetto che l’ha determinato non sempre ha avuto committenti, ma è l’umanità stessa che l’ha portato avanti seguendo necessità, ideali, motivi etici ed estetici, riassumibili nel concetto di spirito. Le coordinate sono costituite dalle esigenze materiali, sociali, economiche, difensive, storiche, assieme a quelle spirituali, che sono le linee maestre. Dunque, sembra di poter dire che il paesaggio non ha una sua architettura in senso tecnico e specifico. Esso si trova in uno stato intuitivo dell’anima, in cui l’architettura, che pure è esistita per crearlo, si fa evanescente o si vede come parte di un tutto. Evidentemente, però, il paesaggio non può esistere senza un’architettura: è un’architettura. Essa è quella che lo ha ispirato ed esso si manifesta proprio in virtù di questa, la quale, tuttavia, è sommessa, quasi inconsapevole, costruita giorno per giorno e talvolta colpita da miracoli di storia, di estetica, di religione, di arte, di filosofia. Quanto sopra detto ha valore relativo perché in assoluto non è così, dal momento che si può sempre sostenere che il paesaggio è un che di volontario, di duttile e di progettabile, in cui l’architetto esercita la sua influenza e l’architettura sta come progetto d’arte. Ci si riferisce a forme non casuali e spontanee, ma a interventi artificiali, culturali, preordinati, per creare o ricreare il territorio adattandolo alle esigenze del mondo. Si può pensare a qualcosa di compiuto in un determinato ambito, a un’opera di conservazione, di ricostruzione o di rinnovamento, che s’ inserisce in un preciso contesto. Il paesaggio diviene allora la materia stessa dell’opera oltreché il luogo che accoglie forme plastiche e si studia in una prospettiva di idee architettoniche o dal punto di vista dell’architettura. In questo senso la disciplina – che, come suggerisce il paesaggista inglese Geoffrey Alan Jellicoe, è la più antica e la meno apprezzata delle arti visive – va ben oltre la semplice progettazione di parchi e giardini, l’aspetto che meglio l’ha individuata. Essa, infatti, è stata a lungo intesa come abilità nell’immaginare e realizzare parchi e giardini, qualificati come paesaggi. Ha assunto poi una più complessa denotazione venendo a indicare la riorganizzazione e il ripristino di ambienti naturali: si sono così attribuiti agli architetti paesaggisti incarichi propri degli ambientalisti. Solo nel corso degli anni Sessanta, essa ha cominciato a essere accettata come arte che compone in modo espressivo gli spazi vissuti dall’uomo. Di simili composizioni sono state offerti significativi esempi, dopo aver rivolto l’attenzione al grande tema del paesaggio.
Per un'architettura del paesaggio
Andreotti, Giuliana
2005-01-01
Abstract
Il volume si apre riflettendo sull’architettura del paesaggio, disciplina la cui definizione è quanto di più ambiguo si possa immaginare. Parlare di “architettura del paesaggio” potrebbe sembrare una palese contraddizione, un contrasto logico, un’incoerenza, in quanto si nota come i due termini della locuzione, anziché concordare, tendano a distinguersi: l’architettura, infatti, è la tecnica o l’arte di progettare, mentre il paesaggio è l’esistente, il divenuto, una raccolta di elementi culturali che proviene da architetti ideali che così l’hanno dedicato attraverso i millenni. È qualcosa d’ideato nel tempo e giunto a noi come opera completa che è il suo passato nobile, perché il progetto che l’ha determinato non sempre ha avuto committenti, ma è l’umanità stessa che l’ha portato avanti seguendo necessità, ideali, motivi etici ed estetici, riassumibili nel concetto di spirito. Le coordinate sono costituite dalle esigenze materiali, sociali, economiche, difensive, storiche, assieme a quelle spirituali, che sono le linee maestre. Dunque, sembra di poter dire che il paesaggio non ha una sua architettura in senso tecnico e specifico. Esso si trova in uno stato intuitivo dell’anima, in cui l’architettura, che pure è esistita per crearlo, si fa evanescente o si vede come parte di un tutto. Evidentemente, però, il paesaggio non può esistere senza un’architettura: è un’architettura. Essa è quella che lo ha ispirato ed esso si manifesta proprio in virtù di questa, la quale, tuttavia, è sommessa, quasi inconsapevole, costruita giorno per giorno e talvolta colpita da miracoli di storia, di estetica, di religione, di arte, di filosofia. Quanto sopra detto ha valore relativo perché in assoluto non è così, dal momento che si può sempre sostenere che il paesaggio è un che di volontario, di duttile e di progettabile, in cui l’architetto esercita la sua influenza e l’architettura sta come progetto d’arte. Ci si riferisce a forme non casuali e spontanee, ma a interventi artificiali, culturali, preordinati, per creare o ricreare il territorio adattandolo alle esigenze del mondo. Si può pensare a qualcosa di compiuto in un determinato ambito, a un’opera di conservazione, di ricostruzione o di rinnovamento, che s’ inserisce in un preciso contesto. Il paesaggio diviene allora la materia stessa dell’opera oltreché il luogo che accoglie forme plastiche e si studia in una prospettiva di idee architettoniche o dal punto di vista dell’architettura. In questo senso la disciplina – che, come suggerisce il paesaggista inglese Geoffrey Alan Jellicoe, è la più antica e la meno apprezzata delle arti visive – va ben oltre la semplice progettazione di parchi e giardini, l’aspetto che meglio l’ha individuata. Essa, infatti, è stata a lungo intesa come abilità nell’immaginare e realizzare parchi e giardini, qualificati come paesaggi. Ha assunto poi una più complessa denotazione venendo a indicare la riorganizzazione e il ripristino di ambienti naturali: si sono così attribuiti agli architetti paesaggisti incarichi propri degli ambientalisti. Solo nel corso degli anni Sessanta, essa ha cominciato a essere accettata come arte che compone in modo espressivo gli spazi vissuti dall’uomo. Di simili composizioni sono state offerti significativi esempi, dopo aver rivolto l’attenzione al grande tema del paesaggio.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione