Il libro si propone due obiettivi principali: da una parte esplorare il lavoro di un regista che, come pochi altri della sua generazione, ha raccolto su di sé in parti uguali apprezzamenti e critiche feroci. Adorato da una parte della critica (in modo abbastanza radicale: certe nazioni e non altre, certe riviste e non altre, certi critici e non altri, certi festival e non altri), trattato con sufficienza da un’altra; contemporaneamente considerato uno dei migliori registi dell’ultimo decennio, oppure semplicemente un autore mediocre che ripete sempre lo stesso modello. Ma anche in grado di suscitare emozioni molto diverse nel corso del suo lavoro: film come L’isola e Address Unknown hanno brutalizzato il pubblico e lo hanno schoccato, mentre altri come Ferro 3 o Primavera… hanno affascinato e commosso. Un regista che nel corso di un’esperienza molto limitata (una decina d’anni) ha prodotto con furia bulimia molti film e ha cambiato spesso direzione. Quindi la prima questione è “chi è KKD”? o meglio “qual è KKD”? quello di L’isola o quello di L’arco? A questa domanda si risponde in due modi: intanto approfondendo e facendo letteralmente scoprire alcuni suoi titoli che in Italia sono praticamente sconosciuti per il grande pubblico, e che sono ormai solo un feticcio per gli appassionati di cinema coreano (si pensi non solo a film “rari” come Crocodile, ma anche a film “invisibilI” come Birdcage Inn e Wild Animal, ma anche Coast Guard, un film che aprirebbe molti dubbi sia i detrattori che agli appassionati di KKD se venisse “visto” con maggiore frequenza). E poi cercando di ricostruire il “sistema a-sistematico” di KKD: lui stesso non vuole sentire parlare di “sistema” per il suo cinema, e continua a mettere davanti il solito motto “sono come l’acqua: scorro”, ma è innegabile che tutta la sua cinematografia sia sostenuta da una serie di tracce, che possiamo chiamare in molti modi (rimandi, ossessioni, costanti, autocitazioni…), ma che servono a stringere i nodi principali da film a film. Esplorare queste tracce, cercare in che modo i film “parlano fra di loro” è il modo migliore per approfondire il cinema di KKD, ma anche per non limitarsi alla lettura critica di un regista “auto-citazionista”: c’è un dialogo sotterraneo tra tutti i film di KKD, un dialogo che nasconde un’idea di cinema non così inafferrabile, ma semplicemente in continua evoluzione. KKD sembra essere posseduto dal demone del “dire meglio”, cioè di ripetere le sue frasi (visive, filmiche, narrative) cercando ogni volta di migliorale, di ritoccarle, di rileggerle. Il secondo obiettivo, decisamente più difficile, è quello di collocare KKD all’interno del panorama del cinema coreano contemporaneo. Difficile perché il new korean cinema è uno dei cinema più fecondi e interessanti del panorama internazionale è non è semplice dominarlo e poterne rendere ragione (soprattutto nella forma della monografia di un singolo regista), ma soprattutto perché da questo cinema KKD si è sempre tenuto distaccato, estraneo, quasi scostante. Al contrario il modo migliore per comprendere il lavoro di KKD è cercare di ritrovare altre tracce di dialogo: quelle tra il suo cinema autartico e il cinema che lo circonda, che è fuori di lui.
Kim Ki-duk
Bellavita, Andrea
2006-01-01
Abstract
Il libro si propone due obiettivi principali: da una parte esplorare il lavoro di un regista che, come pochi altri della sua generazione, ha raccolto su di sé in parti uguali apprezzamenti e critiche feroci. Adorato da una parte della critica (in modo abbastanza radicale: certe nazioni e non altre, certe riviste e non altre, certi critici e non altri, certi festival e non altri), trattato con sufficienza da un’altra; contemporaneamente considerato uno dei migliori registi dell’ultimo decennio, oppure semplicemente un autore mediocre che ripete sempre lo stesso modello. Ma anche in grado di suscitare emozioni molto diverse nel corso del suo lavoro: film come L’isola e Address Unknown hanno brutalizzato il pubblico e lo hanno schoccato, mentre altri come Ferro 3 o Primavera… hanno affascinato e commosso. Un regista che nel corso di un’esperienza molto limitata (una decina d’anni) ha prodotto con furia bulimia molti film e ha cambiato spesso direzione. Quindi la prima questione è “chi è KKD”? o meglio “qual è KKD”? quello di L’isola o quello di L’arco? A questa domanda si risponde in due modi: intanto approfondendo e facendo letteralmente scoprire alcuni suoi titoli che in Italia sono praticamente sconosciuti per il grande pubblico, e che sono ormai solo un feticcio per gli appassionati di cinema coreano (si pensi non solo a film “rari” come Crocodile, ma anche a film “invisibilI” come Birdcage Inn e Wild Animal, ma anche Coast Guard, un film che aprirebbe molti dubbi sia i detrattori che agli appassionati di KKD se venisse “visto” con maggiore frequenza). E poi cercando di ricostruire il “sistema a-sistematico” di KKD: lui stesso non vuole sentire parlare di “sistema” per il suo cinema, e continua a mettere davanti il solito motto “sono come l’acqua: scorro”, ma è innegabile che tutta la sua cinematografia sia sostenuta da una serie di tracce, che possiamo chiamare in molti modi (rimandi, ossessioni, costanti, autocitazioni…), ma che servono a stringere i nodi principali da film a film. Esplorare queste tracce, cercare in che modo i film “parlano fra di loro” è il modo migliore per approfondire il cinema di KKD, ma anche per non limitarsi alla lettura critica di un regista “auto-citazionista”: c’è un dialogo sotterraneo tra tutti i film di KKD, un dialogo che nasconde un’idea di cinema non così inafferrabile, ma semplicemente in continua evoluzione. KKD sembra essere posseduto dal demone del “dire meglio”, cioè di ripetere le sue frasi (visive, filmiche, narrative) cercando ogni volta di migliorale, di ritoccarle, di rileggerle. Il secondo obiettivo, decisamente più difficile, è quello di collocare KKD all’interno del panorama del cinema coreano contemporaneo. Difficile perché il new korean cinema è uno dei cinema più fecondi e interessanti del panorama internazionale è non è semplice dominarlo e poterne rendere ragione (soprattutto nella forma della monografia di un singolo regista), ma soprattutto perché da questo cinema KKD si è sempre tenuto distaccato, estraneo, quasi scostante. Al contrario il modo migliore per comprendere il lavoro di KKD è cercare di ritrovare altre tracce di dialogo: quelle tra il suo cinema autartico e il cinema che lo circonda, che è fuori di lui.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione