Il problema del rifiuto delle cure nella dottrina di ius commune si sviluppa attraverso il grande tema della relazione tra la libera volontà individuale e la tutela pubblica, intesa quest’ultima sia in senso soggettivo (responsabilità morale) sia in senso oggettivo (responsabilità legale). L’interpretatio messa a punto tra i secoli XII e XVI, vale a dire nell’arco di tempo che va dal Medioevo alla prima Età moderna, fa da cerniera tra fatto e diritto, e pone così gli interrogativi di fondo intorno ai quali ruota la questione oggi dibattuta come ‘fine vita’. Fino a che punto, per il diritto, può spingersi l’esercizio della volontà soggettiva? E, d’altra parte, fino a che punto può estendersi l’intervento del potere pubblico nel limitare giuridicamente l’esercizio della volontà personale? La questione sembra rinviare inevitabilmente al contrasto insanabile tra la risposta legata a valori religiosi e la risposta dettata invece dalla coscienza laica. Ma proprio a questo riguardo la dottrina di ius commune mostra caratteri peculiari ed originali. In essa si dà spazio alla capacità di pensare l’aegrotus invitus, il malato che rifiuta la cura, come civis invitus. L’adagio secondo cui ‘interest rei publicae homines viventes conservari’ appare significativo di un’etica nuova, in grado di elevarsi al di sopra e al di là del sistema di valori religiosi, incarnata e incarnante la civitas. Essa sembra riconducibile ai princìpi fondamentali dell’ordinamento civile: c’è una giustizia civile più alta rispetto alla volontà libera dell’uomo. C’è una ratio humanitatis, fonte del diritto, in cui possono incontrarsi soggettività e norma.
‘Humanitatis ratio’: il problema del rifiuto delle cure nella letteratura di diritto comune (sec. XII-XV) / Natalini, Cecilia. - 50:(2025). [10.15168/11572_443410]
‘Humanitatis ratio’: il problema del rifiuto delle cure nella letteratura di diritto comune (sec. XII-XV)
Natalini, Cecilia
2025-01-01
Abstract
Il problema del rifiuto delle cure nella dottrina di ius commune si sviluppa attraverso il grande tema della relazione tra la libera volontà individuale e la tutela pubblica, intesa quest’ultima sia in senso soggettivo (responsabilità morale) sia in senso oggettivo (responsabilità legale). L’interpretatio messa a punto tra i secoli XII e XVI, vale a dire nell’arco di tempo che va dal Medioevo alla prima Età moderna, fa da cerniera tra fatto e diritto, e pone così gli interrogativi di fondo intorno ai quali ruota la questione oggi dibattuta come ‘fine vita’. Fino a che punto, per il diritto, può spingersi l’esercizio della volontà soggettiva? E, d’altra parte, fino a che punto può estendersi l’intervento del potere pubblico nel limitare giuridicamente l’esercizio della volontà personale? La questione sembra rinviare inevitabilmente al contrasto insanabile tra la risposta legata a valori religiosi e la risposta dettata invece dalla coscienza laica. Ma proprio a questo riguardo la dottrina di ius commune mostra caratteri peculiari ed originali. In essa si dà spazio alla capacità di pensare l’aegrotus invitus, il malato che rifiuta la cura, come civis invitus. L’adagio secondo cui ‘interest rei publicae homines viventes conservari’ appare significativo di un’etica nuova, in grado di elevarsi al di sopra e al di là del sistema di valori religiosi, incarnata e incarnante la civitas. Essa sembra riconducibile ai princìpi fondamentali dell’ordinamento civile: c’è una giustizia civile più alta rispetto alla volontà libera dell’uomo. C’è una ratio humanitatis, fonte del diritto, in cui possono incontrarsi soggettività e norma.File | Dimensione | Formato | |
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