Tra 1950 e 1952, in Italia, fu avviato un recupero della figura di Giacomo Balla come “nobile antenato” dell’astrattismo italiano. A compierla furono alcuni critici e, sopratutto, alcuni artisti, trasversali per generazione: compagni di strada del Futurismo, come Enrico Prampolini, artisti maturati lungo il Ventennio, come Ettore Colla, e figure più giovani, organizzate per gruppi sulla scorta delle avanguardie storiche (il M.A.C. a Milano e Forma a Roma). In quella concitata fase di aggiornamento dell’arte italiana, la fortuna di Balla subì pertanto una metamorfosi significativa che la vide al centro di una più ampia riflessione sul ruolo dell’astrazione sia nel campo del formalismo sia in quello della cosiddetta “sintesi delle arti”. A lungo considerato come uno sperimentatore innovativo nel campo del design, della progettazione ambientale – della “ricostruzione futurista dell’universo”, appunto – Balla si trovò ora conteso in un campo di interpretazioni che ne reclamavano aspetti ambivalenti: oltre all’integrazione tra le arti, anche alcuni inaspettati primati come quello sul polimaterismo e sull’invenzione di un linguaggio astratto finalmente puro e coerente con una certa tradizione pittorica italiana. Tra le due retrospettive agli “Amici di Francia”, a Milano, e presso la galleria Origine, a Roma, e le più tarde letture neo-dadaiste, proposte da critici come Maria Drudi Gambillo nel 1959, la vicenda di Balla fu dunque riletta sullo sfondo degli opposti destini dell’astrazione: come precoce esempio di autonomia formalista della pittura, che congedava l’utopica e compromessa stagione degli anni Trenta, di collaborazioni fra astrattisti e architetti; oppure come suggestione per ripensare e rinnovare la “sintesi delle arti” in chiave sinestesica, immersiva e, persino, d’assemblage. Il presente contributo intende esplorare lo spettro di queste interpretazioni e correlarlo ai tentativi di legittimare, in Italia, una critica di stampo modernista e formalista in antitesi (o in dialogo) con la “sintesi delle arti”.
Su due fortune di Giacomo Balla: qualche considerazione / Viva, Denis. - STAMPA. - (2022), pp. 68-75. (Intervento presentato al convegno Sintesi astratta. Espansioni e risonanze dell'arte astratta in Italia, 1930-1960 tenutosi a Università Cattolica di Milano nel 14 ottobre 2021).
Su due fortune di Giacomo Balla: qualche considerazione
VIVA, Denis
2022-01-01
Abstract
Tra 1950 e 1952, in Italia, fu avviato un recupero della figura di Giacomo Balla come “nobile antenato” dell’astrattismo italiano. A compierla furono alcuni critici e, sopratutto, alcuni artisti, trasversali per generazione: compagni di strada del Futurismo, come Enrico Prampolini, artisti maturati lungo il Ventennio, come Ettore Colla, e figure più giovani, organizzate per gruppi sulla scorta delle avanguardie storiche (il M.A.C. a Milano e Forma a Roma). In quella concitata fase di aggiornamento dell’arte italiana, la fortuna di Balla subì pertanto una metamorfosi significativa che la vide al centro di una più ampia riflessione sul ruolo dell’astrazione sia nel campo del formalismo sia in quello della cosiddetta “sintesi delle arti”. A lungo considerato come uno sperimentatore innovativo nel campo del design, della progettazione ambientale – della “ricostruzione futurista dell’universo”, appunto – Balla si trovò ora conteso in un campo di interpretazioni che ne reclamavano aspetti ambivalenti: oltre all’integrazione tra le arti, anche alcuni inaspettati primati come quello sul polimaterismo e sull’invenzione di un linguaggio astratto finalmente puro e coerente con una certa tradizione pittorica italiana. Tra le due retrospettive agli “Amici di Francia”, a Milano, e presso la galleria Origine, a Roma, e le più tarde letture neo-dadaiste, proposte da critici come Maria Drudi Gambillo nel 1959, la vicenda di Balla fu dunque riletta sullo sfondo degli opposti destini dell’astrazione: come precoce esempio di autonomia formalista della pittura, che congedava l’utopica e compromessa stagione degli anni Trenta, di collaborazioni fra astrattisti e architetti; oppure come suggestione per ripensare e rinnovare la “sintesi delle arti” in chiave sinestesica, immersiva e, persino, d’assemblage. Il presente contributo intende esplorare lo spettro di queste interpretazioni e correlarlo ai tentativi di legittimare, in Italia, una critica di stampo modernista e formalista in antitesi (o in dialogo) con la “sintesi delle arti”.File | Dimensione | Formato | |
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