Le pratiche commerciali sleali (PCS) nei rapporti tra imprese nella filiera agroalimentare sono un fenomeno tendenzialmente nuovo, che trae origine dalla progressiva globalizzazione del sistema agroalimentare. Per comprendere la vera essenza di questa problematica, è necessario analizzare la conformazione della filiera agroalimentare; dunque, il primo capitolo si concentra sugli attori e sulle dinamiche che la caratterizzano, nonché sulla distribuzione del valore lungo la stessa. L’attuale filiera agroalimentare è contraddistinta da una natura transnazionale e dalla presenza di una moltitudine di soggetti economici che operano al suo interno. In condizioni ideali di mercato, il valore generato lungo la filiera dovrebbe essere distribuito equamente tra gli operatori commerciali, sulla base del loro singolo contributo al prodotto finale destinato al consumo. Ciononostante, il valore è spesso distribuito iniquamente, soprattutto a discapito della comunità agricola. Uno dei fattori che incide maggiormente su questo risultato è la progressiva concentrazione di attori ai margini della filiera. A valle, vi sono dei grandi colossi industriali che ormai controllano il mercato sementiero e agrochimico europeo. A monte, le imprese di trasformazione e distribuzione, oggi conosciute come grande distribuzione organizzata (GDO). Questi soggetti economici, in particolare, sono in grado di influenzare le dinamiche dell’intero settore agroalimentare, in virtù della loro posizione di prossimità ai consumatori. Pertanto, detengono un potere contrattuale più “forte” rispetto alle loro controparti più “deboli”: i produttori agricoli. Questa situazione di asimmetria di potere contrattuale implica, nella maggior parte dei casi, che la GDO sfrutti il potere acquisito per imporre unilateralmente condizioni ingiuste alle sue controparti, mettendo in atto, dunque, delle pratiche sleali. Lo scopo è quello di catturare la più ampia fetta di valore generato lungo la filiera, ergo, di incrementare sempre di più i profitti. Le conseguenze di queste pratiche minacciano il funzionamento dell’intero mercato agroalimentare, perché alterano la distribuzione di risorse e incoraggiano comportamenti distorsivi lungo tutta la filiera, con effetti negativi anche sui consumatori. Fatta questa premessa, l’analisi si concentra successivamente sui potenziali rimedi contro le PCS. Il primo rimedio esaminato consiste nel ritorno a una filiera agroalimentare “corta”; ripristinare però a livello globale un tale sistema sembra, oggi, alquanto impossibile. La seconda soluzione, in grado di aumentare la competitività dei piccoli agricoltori e il valore aggiunto delle loro produzioni, consiste nella differenziazione dei prodotti sul mercato. Ciononostante, se continua ad esservi una concentrazione di acquirenti potenti, i fornitori di prodotti agroalimentari rimarranno comunque subordinati a decisioni negoziali altrui, e il valore aggiunto dei loro prodotti potrà ugualmente disperdersi. Per beneficiare realmente di questa condizione privilegiata, gli agricoltori dovrebbero a loro volta concentrarsi, per rafforzare contestualmente la loro posizione contrattuale. Quest'ultima considerazione sottolinea come sia necessario, dunque, un intervento pubblico sulla disciplina della concorrenza, al fine di incentivare forme di aggregazione tra produttori agricoli. Il legislatore europeo è quindi intervenuto sulla disciplina antitrust prevedendo una serie di deroghe a beneficio della comunità agricola, tentando di riequilibrare la situazione di diseguaglianza contrattuale presente tra fornitori e acquirenti di prodotti agroalimentari. Senza un intervento adeguato, diretto a tutelare in primis gli agricoltori, questa situazione di disparità potrebbe comportare anche la riemersione di un problema di sicurezza alimentare. Considerando che l'accesso al cibo è un bisogno primario e essenziale dell’uomo, questo risultato deve essere assolutamente evitato. Le politiche europee hanno sempre sostenuto pertanto il settore agricolo e la sua comunità, attraverso un cosiddetto approccio di "eccezionalismo agricolo". Il sostegno agli agricoltori, e di conseguenza alla sicurezza alimentare, giustifica infatti un intervento pubblico di tipo "eccezionale", non solo sulla normativa antitrust, ma anche sulla disciplina contrattuale, da sempre espressione dell’autonomia privata. Il primo tipo di intervento, infatti, tenta di dirimere la problematica delle PCS all’origine, rafforzando la posizione degli agricoltori lungo la filiera. Tuttavia, è indispensabile un’ulteriore azione pubblica diretta a regolare il contenuto degli accordi tra imprese, al fine di eliminare, in un’ottica ex post, le conseguenze negative delle pratiche negoziali scorrette. In quest’ultimo rimedio di natura pubblica, il tema dell’“eccezionalismo agricolo" si intreccia con quello della giustizia contrattuale, permettendo al legislatore di perseguire una giustizia di tipo distributivo. L’articolo 39 del TFUE prevede tra gli obiettivi della PAC quello di assicurare un equo tenore di vita alla comunità agricola. Alla luce dell'attuale squilibrio nella distribuzione del valore lungo la filiera, questa "equità" può essere garantita solamente attraverso contratti che realizzano un tipo di giustizia distributiva, vale a dire, un'equa distribuzione di valore e risorse. Ed è proprio questa crescente consapevolezza che ha determinato l’intervento regolatore del legislatore comunitario sui rapporti tra imprese lungo la filiera agroalimentare, con la Direttiva (UE) 2019/633. Il primo capitolo si conclude sottolineando la necessità di un intervento pubblico su vari livelli per contrastare le PCS; da subito, dunque, si percepisce la complessità di questo fenomeno. Il secondo capitolo indaga invece il quadro giuridico europeo sulle pratiche sleali, partendo dalla comunicazione della Commissione del 2009, fino ad arrivare alla Direttiva (UE) 2019/633. Negli anni, la Commissione ha sempre favorito interventi di soft law, inizialmente, perché le PCS rappresentavano un problema recente e ancora poco investigato per poter intervenire diversamente. Infatti, nella prima comunicazione analizzata, la Commissione sottolinea l’importanza di condurre ulteriori studi su queste pratiche, riconoscendo comunque il loro potenziale effetto negativo sulla filiera agroalimentare e sui suoi attori. La Commissione si impegnava, in questa occasione, anche a implementare entro il 2010 delle iniziative a livello europeo per trovare dei possibili rimedi. In quell’anno viene dunque costituito il Forum di Alto livello sul migliore funzionamento della filiera alimentare, all’interno del quale, viene elaborato un codice di condotta: i Principles of Good Practice. Nello specifico, si tratta di una serie di principi che le imprese agroalimentari dovrebbero applicare nelle loro relazioni commerciali, per garantire maggiore equità lungo la filiera. Questi principi contengono esempi di pratiche sia sleali che leali, rappresentando una sorta di manuale per le aziende. Per questo motivo, l’analisi condotta evidenzia spesso l'importanza di includere questo codice di natura privata in un eventuale intervento pubblico di hard law a livello UE. Anche il Parlamento europeo infatti espresse il suo parere positivo in relazione a questa prima forma di regolamentazione privata, sottolineando però al tempo stesso la necessità di un intervento legislativo sulla contrattazione tra imprese, per rispondere efficacemente agli squilibri strutturali della filiera. Questa divergenza di opinioni tra Parlamento e Commissione europea, sull’approccio pubblico alle PCS, durerà fino alla Direttiva (UE) 2019/633. Nel 2013, di fatto, la Commissione interviene con un'altra comunicazione: il Libro verde sulle pratiche commerciali sleali nella catena di fornitura alimentare e non alimentare tra imprese in Europa. Il principale merito di questo ulteriore provvedimento di soft law è quello di identificare e definire il cosiddetto “fattore paura”, che consiste nel timore della parte contrattuale più vulnerabile della cessazione del rapporto commerciale, in caso di denuncia di una pratica sleale. Fattore di cui si deve tener conto nell’elaborazione di una regolamentazione sulle PCS, al fine di introdurre un meccanismo di enforcement efficace. Sempre nello stesso anno, la Commissione, insieme al Forum, lancia un’iniziativa privata volontaria a livello europeo, la Supply Chain Initiative, per dare fondamentalmente attuazione ai Principles of Good Practice. Le aziende agroalimentari aderenti all’Iniziativa erano infatti tenute a implementarli e rispettarli nelle loro relazioni commerciali. Inoltre, l’Iniziativa prevedeva dei meccanismi di risoluzione delle controversie alternativi ai riti ordinari, apparentemente validi, ma purtroppo poco utilizzati, anche a causa della breve durata della Supply Chain Initiative. La potenzialità di questo intervento privato a livello europeo era notevole; tuttavia, l’Iniziativa presentava anche molte lacune che l’hanno resa complessivamente inefficiente e che ne hanno determinato la fine. Tra queste, vi è la mancata partecipazione degli agricoltori e dei loro rappresentanti all'Iniziativa, un difetto di parzialità legato al sistema di governance, infine, la più rilevante, la carenza di un adeguato sistema di enforcement, in grado anche di contrastare il "fattore paura”. Nel corso degli anni sono state ovviamente individuate diverse soluzioni a questi problemi che, se attuate, avrebbero potuto rafforzare il ruolo dell’Iniziativa nella lotta contro le PCS. Ovviamente, sempre in una prospettiva di complementarietà rispetto agli altri fondamentali interventi di natura pubblica. Dopo le pressanti richieste per un'azione più incisiva sulle PCS, provenienti sia dalle altre Istituzioni europee, che dagli attori della filiera, la Commissione ha lanciato l'Iniziativa per migliorare la catena di approvvigionamento alimentare. Questa iniziativa prevedeva tre consultazioni, una aperta al pubblico, due rivolte direttamente alle imprese agroalimentari e alle organizzazioni dei consumatori, con lo scopo di stabilire definitivamente se fosse necessario procedere con un intervento di tipo legislativo. La Commissione predispose innanzitutto una valutazione di impatto iniziale, la quale includeva quattro diverse opzioni di policy sulle PCS, in modo che le parti interessate potessero esprimere le loro preferenze a riguardo. Le risposte e i dati raccolti sono poi confluiti nel report finale sulla valutazione di impatto, che contiene un’analisi specifica dei singoli elementi delle politiche prese in considerazione, e una valutazione dei loro effetti potenziali sul funzionamento della filiera agroalimentare. In generale, l'intervento ritenuto più idoneo è stato quello di tipo legislativo, in grado di introdurre un quadro giuridico comune sulle PCS a livello europeo, con un approccio di armonizzazione minimo. Infatti, diversi Stati membri avevano già adottato nei loro ordinamenti nazionali dei rimedi specifici contro le pratiche sleali, anche in virtù delle iniziative private europee sviluppate in precedenza. Sulla base dei risultati della valutazione di impatto, la Commissione ha presentato una proposta di Direttiva, giustificata dall’esigenza di ridurre le divergenze tra le normative sviluppate dai singoli Stati membri in materia di PCS, nonché di rimediare alle inefficienze della Supply Chain Initiative. La Proposta conteneva una breve lista di pratiche commerciali sleali vietate, la previsione di un sistema di enforcement decentralizzato, con un ruolo centrale affidato alle autorità nazionali competenti nei singoli Stati membri, e l’ambito di applicazione era limitato alla tutela delle piccole-medie imprese fornitrici di prodotti agroalimentari. La Proposta di Direttiva risultava, però, del tutto estranea ai precedenti interventi di regolamentazione privata incoraggiati dalla Commissione. Infatti, non solo non riprendeva il contenuto del codice di condotta precedentemente elaborato a livello europeo, ma non includeva anche la Supply Chain Initiative come parte integrante della nuova policy. Purtroppo, il testo finale della Direttiva (UE) 2019/633 presenterà le medesime mancanze. Prima di giungere a questa conclusione, l’analisi si concentra anche sugli altri difetti della Direttiva, che riguardano rispettivamente il suo ambito di applicazione, declinato questa volta sulla base del fatturato annuale delle imprese agroalimentari, e la lista di PCS vietate. In entrambi i casi, l’assenza di un effettivo approccio di filiera e di tutela della comunità agricola compromettono l'intera base giuridica della Direttiva: l'Articolo 43 paragrafo 2 del TFUE. La nota positiva di questo intervento pubblico è l'introduzione di un sistema di enforcement in grado di contrastare il cosiddetto "fattore paura", superando così il principale impasse della Supply Chain Initiative. Ciononostante, questa azione pubblica a livello comunitario, diretta finalmente a regolare il contenuto degli accordi tra imprese nella filiera agroalimentare, non è in grado di garantire quella giustizia contrattuale di tipo distributivo necessaria per contrastare il fenomeno delle PCS. Uno dei motivi è la mancanza di un effettivo approccio di “eccezionalismo agricolo”, dato che in tutto il testo legislativo i grandi assenti sono proprio gli agricoltori. L’intervento del legislatore europeo presenta molte lacune, e invece di raggiungere il risultato prospettato di introduzione di un quadro normativo completo e uniforme a livello europeo sulle PCS, per alcuni aspetti, finisce in realtà per complicarlo ulteriormente. In questo contesto, dunque, iniziative di regolamentazione privata potrebbero assumere un ruolo fondamentale nel colmare i vuoti di tutela lasciati da questa nuova legislazione. La Direttiva tuttavia non ha valorizzato quelle già esistenti a livello europeo, che avrebbero potuto assolvere questa funzione, ossia i Principles of Good Practice e la Supply Chain Initiative. Questa ulteriore azione avrebbe infatti ovviato alle problematiche principali della Direttiva, ampliando rispettivamente il suo ambito di applicazione e la lista di pratiche sleali vietate. Dal momento che ciò non è stato fatto, il terzo capitolo indaga le potenzialità della regolamentazione privata transnazionale, nell’azione contro le PCS e nel colmare le lacune dell’intervento pubblico. Adottando un approccio di tipo "complementare", infatti, la Direttiva lascia ampio spazio a questo tipo di regolamentazione privata, che ben si adatta al fenomeno delle pratiche sleali. Le PCS interessano una filiera agroalimentare ormai altamente globalizzata, quindi le loro implicazioni transfrontaliere potrebbero essere regolate in modo efficace con un intervento di tipo transnazionale. Inoltre, la natura tipicamente ibrida della regolamentazione privata transnazionale permette di adottare un approccio integrato, sia pubblico che privato, nell’azione di contrasto alle PCS. In particolare, sono state analizzate due forme di intervento privato, sviluppate essenzialmente con l'obiettivo di monitorare il comportamento delle aziende nella filiera agroalimentare: il Supermarket Scorecard dell’Oxfam e la certificazione etica "NoCap". Entrambi, si sono rivelati potenzialmente efficaci nel colmare i vuoti di tutela lasciati dal legislatore europeo, nonché fondamentali per sensibilizzare i consumatori sulle problematiche che riguardano la filiera agroalimentare. Quest'ultimo punto, infatti, rappresenta un altro di quegli aspetti completamente dimenticati dal legislatore europeo nella Direttiva (UE) 2019/633. Per rispondere efficacemente al problema delle PCS, è necessario includere nelle azioni di intervento tutti gli attori della filiera, dunque, anche i consumatori. D’altronde, essi rappresentano uno dei fattori più importanti in grado di influenzare le dinamiche commerciali lungo la filiera agroalimentare. In conclusione, la Direttiva (UE) 2019/633 rappresenta un debole tentativo di intervento pubblico a livello europeo. I legislatori nazionali hanno ora il compito di attuare la Direttiva adottando un approccio di filiera e di complementarietà di tipo "orizzontale", integrando dunque l’azione pubblica con quella di tipo privato. Questa potrebbe rappresentare anche l'ultima possibilità per creare finalmente un quadro giuridico uniforme a livello europeo, in grado di proteggere i produttori agricoli dai comportamenti commerciali sleali, in linea anche con la base giuridica scelta dalla Direttiva. Solo attraverso un tale approccio, infatti, sarà possibile non solo contrastare efficacemente le pratiche commerciali sleali, ma anche lo squilibrio di potere contrattuale e l'iniqua distribuzione di valore lungo la filiera. In questo modo, si potrà garantire un effettivo ed equo tenore di vita alla comunità agricola, impedendo la riemersione della problematica della sicurezza alimentare.
This paper addresses the phenomenon of Unfair Trading Practices (hereinafter, UTPs) in the business-to-business EU agri-food supply chain, stressing the need of combining both public and private interventions to effectively tackle the issue. These unfair behaviours can be understood only in light of the dynamics that govern the current agri-food supply chain; therefore, the analysis will initially focus on the chain’s structural characteristics. The UTPs’ potential consequences on businesses, consumers, and on the functioning of the internal market will reveal the severity of this issue and the call for a targeted intervention. It will be stressed, in particular, how UTPs negatively affect the agricultural community, putting at risk the stability of the whole sector, thus re-proposing a food security issue. Some possible remedies will be investigated, such as the restoration of a short food supply chain and product differentiation. Nonetheless, the ones capable of tackling more deeply this issue are the public ones, in particular the regulatory intervention on competition law and the one on the content of B2B agreements. The paper will then survey the path that led to the Directive (EU) 2019/633 on UTPs, also considering EU private regulatory actions on the topic, such as the Principles of Good Practice and the Supply Chain Initiative. The investigation will disclose the shortcomings of the Directive, highlighting its complementary role in the current EU legal framework and the potentiality of private interventions in overcoming its deficiencies. Finally, the additional role of transnational private regulation in the fight against UTPs will be explored. In this regard, the analysis will especially consider two private initiatives: the Oxfam’s Supermarket Scorecard and the “NoCap” ethical certification scheme.
Unfair Trading Practices in the Business-to-Business Food Supply Chain Between Public and Private Regulation / Borghetto, Maria Vittoria. - ELETTRONICO. - (2020), pp. 1-114. [10.15168/11572_290696]
Unfair Trading Practices in the Business-to-Business Food Supply Chain Between Public and Private Regulation
Borghetto, Maria Vittoria
2020-01-01
Abstract
Le pratiche commerciali sleali (PCS) nei rapporti tra imprese nella filiera agroalimentare sono un fenomeno tendenzialmente nuovo, che trae origine dalla progressiva globalizzazione del sistema agroalimentare. Per comprendere la vera essenza di questa problematica, è necessario analizzare la conformazione della filiera agroalimentare; dunque, il primo capitolo si concentra sugli attori e sulle dinamiche che la caratterizzano, nonché sulla distribuzione del valore lungo la stessa. L’attuale filiera agroalimentare è contraddistinta da una natura transnazionale e dalla presenza di una moltitudine di soggetti economici che operano al suo interno. In condizioni ideali di mercato, il valore generato lungo la filiera dovrebbe essere distribuito equamente tra gli operatori commerciali, sulla base del loro singolo contributo al prodotto finale destinato al consumo. Ciononostante, il valore è spesso distribuito iniquamente, soprattutto a discapito della comunità agricola. Uno dei fattori che incide maggiormente su questo risultato è la progressiva concentrazione di attori ai margini della filiera. A valle, vi sono dei grandi colossi industriali che ormai controllano il mercato sementiero e agrochimico europeo. A monte, le imprese di trasformazione e distribuzione, oggi conosciute come grande distribuzione organizzata (GDO). Questi soggetti economici, in particolare, sono in grado di influenzare le dinamiche dell’intero settore agroalimentare, in virtù della loro posizione di prossimità ai consumatori. Pertanto, detengono un potere contrattuale più “forte” rispetto alle loro controparti più “deboli”: i produttori agricoli. Questa situazione di asimmetria di potere contrattuale implica, nella maggior parte dei casi, che la GDO sfrutti il potere acquisito per imporre unilateralmente condizioni ingiuste alle sue controparti, mettendo in atto, dunque, delle pratiche sleali. Lo scopo è quello di catturare la più ampia fetta di valore generato lungo la filiera, ergo, di incrementare sempre di più i profitti. Le conseguenze di queste pratiche minacciano il funzionamento dell’intero mercato agroalimentare, perché alterano la distribuzione di risorse e incoraggiano comportamenti distorsivi lungo tutta la filiera, con effetti negativi anche sui consumatori. Fatta questa premessa, l’analisi si concentra successivamente sui potenziali rimedi contro le PCS. Il primo rimedio esaminato consiste nel ritorno a una filiera agroalimentare “corta”; ripristinare però a livello globale un tale sistema sembra, oggi, alquanto impossibile. La seconda soluzione, in grado di aumentare la competitività dei piccoli agricoltori e il valore aggiunto delle loro produzioni, consiste nella differenziazione dei prodotti sul mercato. Ciononostante, se continua ad esservi una concentrazione di acquirenti potenti, i fornitori di prodotti agroalimentari rimarranno comunque subordinati a decisioni negoziali altrui, e il valore aggiunto dei loro prodotti potrà ugualmente disperdersi. Per beneficiare realmente di questa condizione privilegiata, gli agricoltori dovrebbero a loro volta concentrarsi, per rafforzare contestualmente la loro posizione contrattuale. Quest'ultima considerazione sottolinea come sia necessario, dunque, un intervento pubblico sulla disciplina della concorrenza, al fine di incentivare forme di aggregazione tra produttori agricoli. Il legislatore europeo è quindi intervenuto sulla disciplina antitrust prevedendo una serie di deroghe a beneficio della comunità agricola, tentando di riequilibrare la situazione di diseguaglianza contrattuale presente tra fornitori e acquirenti di prodotti agroalimentari. Senza un intervento adeguato, diretto a tutelare in primis gli agricoltori, questa situazione di disparità potrebbe comportare anche la riemersione di un problema di sicurezza alimentare. Considerando che l'accesso al cibo è un bisogno primario e essenziale dell’uomo, questo risultato deve essere assolutamente evitato. Le politiche europee hanno sempre sostenuto pertanto il settore agricolo e la sua comunità, attraverso un cosiddetto approccio di "eccezionalismo agricolo". Il sostegno agli agricoltori, e di conseguenza alla sicurezza alimentare, giustifica infatti un intervento pubblico di tipo "eccezionale", non solo sulla normativa antitrust, ma anche sulla disciplina contrattuale, da sempre espressione dell’autonomia privata. Il primo tipo di intervento, infatti, tenta di dirimere la problematica delle PCS all’origine, rafforzando la posizione degli agricoltori lungo la filiera. Tuttavia, è indispensabile un’ulteriore azione pubblica diretta a regolare il contenuto degli accordi tra imprese, al fine di eliminare, in un’ottica ex post, le conseguenze negative delle pratiche negoziali scorrette. In quest’ultimo rimedio di natura pubblica, il tema dell’“eccezionalismo agricolo" si intreccia con quello della giustizia contrattuale, permettendo al legislatore di perseguire una giustizia di tipo distributivo. L’articolo 39 del TFUE prevede tra gli obiettivi della PAC quello di assicurare un equo tenore di vita alla comunità agricola. Alla luce dell'attuale squilibrio nella distribuzione del valore lungo la filiera, questa "equità" può essere garantita solamente attraverso contratti che realizzano un tipo di giustizia distributiva, vale a dire, un'equa distribuzione di valore e risorse. Ed è proprio questa crescente consapevolezza che ha determinato l’intervento regolatore del legislatore comunitario sui rapporti tra imprese lungo la filiera agroalimentare, con la Direttiva (UE) 2019/633. Il primo capitolo si conclude sottolineando la necessità di un intervento pubblico su vari livelli per contrastare le PCS; da subito, dunque, si percepisce la complessità di questo fenomeno. Il secondo capitolo indaga invece il quadro giuridico europeo sulle pratiche sleali, partendo dalla comunicazione della Commissione del 2009, fino ad arrivare alla Direttiva (UE) 2019/633. Negli anni, la Commissione ha sempre favorito interventi di soft law, inizialmente, perché le PCS rappresentavano un problema recente e ancora poco investigato per poter intervenire diversamente. Infatti, nella prima comunicazione analizzata, la Commissione sottolinea l’importanza di condurre ulteriori studi su queste pratiche, riconoscendo comunque il loro potenziale effetto negativo sulla filiera agroalimentare e sui suoi attori. La Commissione si impegnava, in questa occasione, anche a implementare entro il 2010 delle iniziative a livello europeo per trovare dei possibili rimedi. In quell’anno viene dunque costituito il Forum di Alto livello sul migliore funzionamento della filiera alimentare, all’interno del quale, viene elaborato un codice di condotta: i Principles of Good Practice. Nello specifico, si tratta di una serie di principi che le imprese agroalimentari dovrebbero applicare nelle loro relazioni commerciali, per garantire maggiore equità lungo la filiera. Questi principi contengono esempi di pratiche sia sleali che leali, rappresentando una sorta di manuale per le aziende. Per questo motivo, l’analisi condotta evidenzia spesso l'importanza di includere questo codice di natura privata in un eventuale intervento pubblico di hard law a livello UE. Anche il Parlamento europeo infatti espresse il suo parere positivo in relazione a questa prima forma di regolamentazione privata, sottolineando però al tempo stesso la necessità di un intervento legislativo sulla contrattazione tra imprese, per rispondere efficacemente agli squilibri strutturali della filiera. Questa divergenza di opinioni tra Parlamento e Commissione europea, sull’approccio pubblico alle PCS, durerà fino alla Direttiva (UE) 2019/633. Nel 2013, di fatto, la Commissione interviene con un'altra comunicazione: il Libro verde sulle pratiche commerciali sleali nella catena di fornitura alimentare e non alimentare tra imprese in Europa. Il principale merito di questo ulteriore provvedimento di soft law è quello di identificare e definire il cosiddetto “fattore paura”, che consiste nel timore della parte contrattuale più vulnerabile della cessazione del rapporto commerciale, in caso di denuncia di una pratica sleale. Fattore di cui si deve tener conto nell’elaborazione di una regolamentazione sulle PCS, al fine di introdurre un meccanismo di enforcement efficace. Sempre nello stesso anno, la Commissione, insieme al Forum, lancia un’iniziativa privata volontaria a livello europeo, la Supply Chain Initiative, per dare fondamentalmente attuazione ai Principles of Good Practice. Le aziende agroalimentari aderenti all’Iniziativa erano infatti tenute a implementarli e rispettarli nelle loro relazioni commerciali. Inoltre, l’Iniziativa prevedeva dei meccanismi di risoluzione delle controversie alternativi ai riti ordinari, apparentemente validi, ma purtroppo poco utilizzati, anche a causa della breve durata della Supply Chain Initiative. La potenzialità di questo intervento privato a livello europeo era notevole; tuttavia, l’Iniziativa presentava anche molte lacune che l’hanno resa complessivamente inefficiente e che ne hanno determinato la fine. Tra queste, vi è la mancata partecipazione degli agricoltori e dei loro rappresentanti all'Iniziativa, un difetto di parzialità legato al sistema di governance, infine, la più rilevante, la carenza di un adeguato sistema di enforcement, in grado anche di contrastare il "fattore paura”. Nel corso degli anni sono state ovviamente individuate diverse soluzioni a questi problemi che, se attuate, avrebbero potuto rafforzare il ruolo dell’Iniziativa nella lotta contro le PCS. Ovviamente, sempre in una prospettiva di complementarietà rispetto agli altri fondamentali interventi di natura pubblica. Dopo le pressanti richieste per un'azione più incisiva sulle PCS, provenienti sia dalle altre Istituzioni europee, che dagli attori della filiera, la Commissione ha lanciato l'Iniziativa per migliorare la catena di approvvigionamento alimentare. Questa iniziativa prevedeva tre consultazioni, una aperta al pubblico, due rivolte direttamente alle imprese agroalimentari e alle organizzazioni dei consumatori, con lo scopo di stabilire definitivamente se fosse necessario procedere con un intervento di tipo legislativo. La Commissione predispose innanzitutto una valutazione di impatto iniziale, la quale includeva quattro diverse opzioni di policy sulle PCS, in modo che le parti interessate potessero esprimere le loro preferenze a riguardo. Le risposte e i dati raccolti sono poi confluiti nel report finale sulla valutazione di impatto, che contiene un’analisi specifica dei singoli elementi delle politiche prese in considerazione, e una valutazione dei loro effetti potenziali sul funzionamento della filiera agroalimentare. In generale, l'intervento ritenuto più idoneo è stato quello di tipo legislativo, in grado di introdurre un quadro giuridico comune sulle PCS a livello europeo, con un approccio di armonizzazione minimo. Infatti, diversi Stati membri avevano già adottato nei loro ordinamenti nazionali dei rimedi specifici contro le pratiche sleali, anche in virtù delle iniziative private europee sviluppate in precedenza. Sulla base dei risultati della valutazione di impatto, la Commissione ha presentato una proposta di Direttiva, giustificata dall’esigenza di ridurre le divergenze tra le normative sviluppate dai singoli Stati membri in materia di PCS, nonché di rimediare alle inefficienze della Supply Chain Initiative. La Proposta conteneva una breve lista di pratiche commerciali sleali vietate, la previsione di un sistema di enforcement decentralizzato, con un ruolo centrale affidato alle autorità nazionali competenti nei singoli Stati membri, e l’ambito di applicazione era limitato alla tutela delle piccole-medie imprese fornitrici di prodotti agroalimentari. La Proposta di Direttiva risultava, però, del tutto estranea ai precedenti interventi di regolamentazione privata incoraggiati dalla Commissione. Infatti, non solo non riprendeva il contenuto del codice di condotta precedentemente elaborato a livello europeo, ma non includeva anche la Supply Chain Initiative come parte integrante della nuova policy. Purtroppo, il testo finale della Direttiva (UE) 2019/633 presenterà le medesime mancanze. Prima di giungere a questa conclusione, l’analisi si concentra anche sugli altri difetti della Direttiva, che riguardano rispettivamente il suo ambito di applicazione, declinato questa volta sulla base del fatturato annuale delle imprese agroalimentari, e la lista di PCS vietate. In entrambi i casi, l’assenza di un effettivo approccio di filiera e di tutela della comunità agricola compromettono l'intera base giuridica della Direttiva: l'Articolo 43 paragrafo 2 del TFUE. La nota positiva di questo intervento pubblico è l'introduzione di un sistema di enforcement in grado di contrastare il cosiddetto "fattore paura", superando così il principale impasse della Supply Chain Initiative. Ciononostante, questa azione pubblica a livello comunitario, diretta finalmente a regolare il contenuto degli accordi tra imprese nella filiera agroalimentare, non è in grado di garantire quella giustizia contrattuale di tipo distributivo necessaria per contrastare il fenomeno delle PCS. Uno dei motivi è la mancanza di un effettivo approccio di “eccezionalismo agricolo”, dato che in tutto il testo legislativo i grandi assenti sono proprio gli agricoltori. L’intervento del legislatore europeo presenta molte lacune, e invece di raggiungere il risultato prospettato di introduzione di un quadro normativo completo e uniforme a livello europeo sulle PCS, per alcuni aspetti, finisce in realtà per complicarlo ulteriormente. In questo contesto, dunque, iniziative di regolamentazione privata potrebbero assumere un ruolo fondamentale nel colmare i vuoti di tutela lasciati da questa nuova legislazione. La Direttiva tuttavia non ha valorizzato quelle già esistenti a livello europeo, che avrebbero potuto assolvere questa funzione, ossia i Principles of Good Practice e la Supply Chain Initiative. Questa ulteriore azione avrebbe infatti ovviato alle problematiche principali della Direttiva, ampliando rispettivamente il suo ambito di applicazione e la lista di pratiche sleali vietate. Dal momento che ciò non è stato fatto, il terzo capitolo indaga le potenzialità della regolamentazione privata transnazionale, nell’azione contro le PCS e nel colmare le lacune dell’intervento pubblico. Adottando un approccio di tipo "complementare", infatti, la Direttiva lascia ampio spazio a questo tipo di regolamentazione privata, che ben si adatta al fenomeno delle pratiche sleali. Le PCS interessano una filiera agroalimentare ormai altamente globalizzata, quindi le loro implicazioni transfrontaliere potrebbero essere regolate in modo efficace con un intervento di tipo transnazionale. Inoltre, la natura tipicamente ibrida della regolamentazione privata transnazionale permette di adottare un approccio integrato, sia pubblico che privato, nell’azione di contrasto alle PCS. In particolare, sono state analizzate due forme di intervento privato, sviluppate essenzialmente con l'obiettivo di monitorare il comportamento delle aziende nella filiera agroalimentare: il Supermarket Scorecard dell’Oxfam e la certificazione etica "NoCap". Entrambi, si sono rivelati potenzialmente efficaci nel colmare i vuoti di tutela lasciati dal legislatore europeo, nonché fondamentali per sensibilizzare i consumatori sulle problematiche che riguardano la filiera agroalimentare. Quest'ultimo punto, infatti, rappresenta un altro di quegli aspetti completamente dimenticati dal legislatore europeo nella Direttiva (UE) 2019/633. Per rispondere efficacemente al problema delle PCS, è necessario includere nelle azioni di intervento tutti gli attori della filiera, dunque, anche i consumatori. D’altronde, essi rappresentano uno dei fattori più importanti in grado di influenzare le dinamiche commerciali lungo la filiera agroalimentare. In conclusione, la Direttiva (UE) 2019/633 rappresenta un debole tentativo di intervento pubblico a livello europeo. I legislatori nazionali hanno ora il compito di attuare la Direttiva adottando un approccio di filiera e di complementarietà di tipo "orizzontale", integrando dunque l’azione pubblica con quella di tipo privato. Questa potrebbe rappresentare anche l'ultima possibilità per creare finalmente un quadro giuridico uniforme a livello europeo, in grado di proteggere i produttori agricoli dai comportamenti commerciali sleali, in linea anche con la base giuridica scelta dalla Direttiva. Solo attraverso un tale approccio, infatti, sarà possibile non solo contrastare efficacemente le pratiche commerciali sleali, ma anche lo squilibrio di potere contrattuale e l'iniqua distribuzione di valore lungo la filiera. In questo modo, si potrà garantire un effettivo ed equo tenore di vita alla comunità agricola, impedendo la riemersione della problematica della sicurezza alimentare.File | Dimensione | Formato | |
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