Nel Fedone compare un curioso e denso riferimento simbolico, che Socrate applica a se stesso, difendendone il senso con insistenza da possibili erronee interpretazioni: il canto del cigno, cui il filosofo avvicina il suo parlare di fronte alla morte, sostenendo che il sentimento che lo ispira sia gioia, non dolore (Phaed. 84d4-85b9). Associando a se stesso l’immagine sacra del cigno, Socrate si appropria di due cose: la mitica bellezza del suo ultimo canto e il potere divinatorio che all’animale viene attribuito, in virtù del legame con Apollo. Questo lavoro si propone di indagare in forma analitica le componenti simboliche e i rimandi interni, che, attraverso il testo del dialogo, vanno ad addensarsi nell’immagine, sciogliendo alcune ambiguità relative al rapporto del filosofo con la morte. L’analisi verterà in particolare: 1.Sul sentimento di gioia che ispira la bellezza del canto Si indagherà il rapporto che Socrate stabilisce con gli uccelli canori (inclusi quelli che la tradizione unisce in un disgraziato mito d’amore e morte: usignolo, rondine e upupa), allo scopo di negare che l’eccellenza melodica sia frutto del dolore, per sostenere, al contrario, che il canto è sempre espressione di estrema gioia. Ci si domanda il perché dell’insistenza di Socrate e il significato dell’applicazione al suo ultimo dialogo dello schema del canto del cigno, tenendo conto del fatto che il canto di Socrate (di norma una pratica dialogica) si è espresso nel Fedone in un reiterato e incompiuto tentativo di dimostrazione dell’immortalità dell’anima, che lascia incerta la promessa di salvezza dalla morte e dubbia la rassicurazione sul significato della morte. 2. Sul valore divinatorio del canto Rappresentando se stesso come cigno sacro ad Apollo, Socrate esprime fiducia nelle sue capacità divinatorie. In altri dialoghi platonici (il Fedro e l’Apologia) il filosofo si attribuisce qualità mantiche in forma minore, limitate alla ricerca della verità su se stesso, ma sostenute in forma di certezza, addirittura contro l’oracolo delfico, invocando una via d’accesso privilegiata (syneidesis o synnoia) alla veracità della coscienza. Attribuendo a Socrate il potere divinatorio del cigno, Platone richiama una forma di vita che altrove sembra diventare oggetto di uno specifico confronto tra il filosofo e il poeta: nel contesto escatologico del racconto di Er in Repubblica X (un mito rettificato, che si vuole verace, sul passaggio vita-morte-vita), è il poeta Orfeo a scegliere per il suo ciclo esistenziale futuro il bios del cigno, a conferma del nesso simbolico che Platone stabilisce tra canto ispirato e tentativo di dominare il passaggio oltre la morte. Ciò istituisce un confronto a distanza tra i due ‘cigni’ Orfeo e Socrate, diversamente attrezzati per il vaticinio, entrambi interessati a forzare le porte dell’Ade e a rischio di fallire nell’impresa, entrambi impegnati nella gioia del canto. 3.Sul desiderio di morte del cantore L’immagine del canto del cigno va a completare l’indicazione che domina l’introduzione al dialogo nel Fedone: il desiderio di morte del filosofo, esplicitato come desiderio dell’anima di restare «tutta sola con se stessa». L’impegno nel dialogo e ogni gesto della sua ultima apparizione scenica fanno di Socrate l’icona di una forma di vita interamente spesa nella synousia filosofica e insieme la negazione del sentimento tragico che accompagna il trapasso nel modo di sentire comune. L’immagine si propone come mezzo per rivisitare alcune questioni: 1) se e in che senso il distacco del filosofo possa essere inteso come fine ultimo e se questo sia la morte; 2) se ciò che caratterizza il filosofo sia un desiderio di abbandonare la vita, nel senso di passare a miglior vita, dimenticando quanto appariva rilevante in relazione all’esistenza; 3) se la pratica filosofica (come forma di esercizio intellettuale e morale che realizza un reiterato distacco dalle pressioni legate ai bisogni del corpo) non sia un candidato migliore a rappresentare il bisogno dell’anima di trovare in sé sola la sua consistenza e il fine ultimo di una vita da filosofo. 4. Su un desiderio di immortalità che convive con l’incertezza Le tesi di Socrate sull’immortalità dell’anima, come dimostrazioni difettose e incompiute, si oppongono prima facie alla certezza del filosofo di star concludendo la vita nel modo migliore. Ricorrendo al confronto con la soluzione dell’Apologia (che lasciava aperta l’alternativa sul futuro oltre la vita, mantenendo inalterato il valore del dialegesthai di fronte alla morte), si intende sostenere che anche nel Fedone si riproponga la rinuncia alla verità dimostrativa, unita alla certezza morale della scelta che induce a persistere nell’attività più degna, come se essa rendesse realmente immortali. Il comportamento di Socrate in attesa della morte (un esempio di eccelsa e teatrale sobrietà, dichiaratamente anti-tragico), potrebbe apparire stoico ante litteram, se a ciò non si aggiungesse la gioia, tratto emozionale che sarebbe ininfluente nel contesto psichico iper-razionale cui darà vita lo Stoicismo, ma che risulta fortemente espressivo nel quadro dell’eudaimonismo platonico. Non l’attesa del trapasso sembra giustificare la gioia del canto, ma l’effetto finale, vissuto e consolidato, della vita buona, che ha condotto la mente del filosofo a raggiungere la sua massima lucidità, rendendo ragione e testimonianza di uno stato di indistruttibile felicità interiore. Il suo canto del cigno sarebbe in questo senso vaticinio veritiero sul senso della vita e sul modo di impiegarla, mentre persiste l’incertezza sul destino dell’anima individuale e l’oscurità del passaggio tra vita e morte. Il «bel rischio» di credere nell’eternità consisterebbe allora nell’ attribuire valore all’unica forma di stabilità sperimentata a livello umano: l’identità intellettuale e morale. 5.Sull’esecuzione perfetta di Socrate e il superamento delle favole sapienziali Il canto di Socrate nel Fedone è un’esecuzione perfetta. Essa fornisce un esempio di ciò che un filosofo è in grado di fare con la pratica ininterrotta del dialegesthai e la fiducia nel valore del discorso di fronte al dubbio che la dimostrazione dell’immortalità sia fallace. Se tale fiducia deve persistere anche quando (soprattutto quando) si manifestano i suoi limiti (rinvio al tema della «zattera del discorso»), potremmo trarne un paradosso: Socrate diventa immortale nell’atto che lo caratterizza come filosofo, mentre fallisce la sua dimostrazione dell’immortalità. Nel suo canto del cigno si fissa l’immagine di una pratica perfetta, in cui è racchiusa la solidità di una virtù che è in se stessa felicità. Ciò segna la sua definitiva distanza dalle figure sapienziali simili agli sciamani, cui si attribuivano poteri demonici, legati a credenze nella persistenza e trasmigrazione delle anime, a pratiche di distacco dal corpo, simili agli esercizi di concentrazione attribuiti a Socrate. Ma nel Fedone il distacco è rappresentato come pratica intellettuale e morale che istituisce un presidio di controllo – il giudizio dell’anima – al di sopra di tutto ciò che l’anima avverte e fa con il tramite del corpo. Lo sfondo salvifico di matrice orfico-pitagorica, chiaramente presente nel Fedone, lo è come oggetto di aperta contestazione critica, da parte del filosofo, su punti di evidente insufficienza dottrinaria, come la teoria dell’anima-armonia (sostituita appunto con l’idea di preminenza del giudizio dell’anima su quanto essa vive in congiunzione naturale col corpo). Il solo punto in cui Socrate si appropria in prima persona del vocabolario simbolico orfico-pitagorico, è quello in cui dà vita al mito finale della «vera terra»: un’immagine che ha un evidente ruolo retorico-persuasivo e che per molti motivi dovrebbe essere considerata una «bella menzogna».

Il canto del cigno di Socrate: una celebrazione della morte?

de Luise, Fulvia
2016-01-01

Abstract

Nel Fedone compare un curioso e denso riferimento simbolico, che Socrate applica a se stesso, difendendone il senso con insistenza da possibili erronee interpretazioni: il canto del cigno, cui il filosofo avvicina il suo parlare di fronte alla morte, sostenendo che il sentimento che lo ispira sia gioia, non dolore (Phaed. 84d4-85b9). Associando a se stesso l’immagine sacra del cigno, Socrate si appropria di due cose: la mitica bellezza del suo ultimo canto e il potere divinatorio che all’animale viene attribuito, in virtù del legame con Apollo. Questo lavoro si propone di indagare in forma analitica le componenti simboliche e i rimandi interni, che, attraverso il testo del dialogo, vanno ad addensarsi nell’immagine, sciogliendo alcune ambiguità relative al rapporto del filosofo con la morte. L’analisi verterà in particolare: 1.Sul sentimento di gioia che ispira la bellezza del canto Si indagherà il rapporto che Socrate stabilisce con gli uccelli canori (inclusi quelli che la tradizione unisce in un disgraziato mito d’amore e morte: usignolo, rondine e upupa), allo scopo di negare che l’eccellenza melodica sia frutto del dolore, per sostenere, al contrario, che il canto è sempre espressione di estrema gioia. Ci si domanda il perché dell’insistenza di Socrate e il significato dell’applicazione al suo ultimo dialogo dello schema del canto del cigno, tenendo conto del fatto che il canto di Socrate (di norma una pratica dialogica) si è espresso nel Fedone in un reiterato e incompiuto tentativo di dimostrazione dell’immortalità dell’anima, che lascia incerta la promessa di salvezza dalla morte e dubbia la rassicurazione sul significato della morte. 2. Sul valore divinatorio del canto Rappresentando se stesso come cigno sacro ad Apollo, Socrate esprime fiducia nelle sue capacità divinatorie. In altri dialoghi platonici (il Fedro e l’Apologia) il filosofo si attribuisce qualità mantiche in forma minore, limitate alla ricerca della verità su se stesso, ma sostenute in forma di certezza, addirittura contro l’oracolo delfico, invocando una via d’accesso privilegiata (syneidesis o synnoia) alla veracità della coscienza. Attribuendo a Socrate il potere divinatorio del cigno, Platone richiama una forma di vita che altrove sembra diventare oggetto di uno specifico confronto tra il filosofo e il poeta: nel contesto escatologico del racconto di Er in Repubblica X (un mito rettificato, che si vuole verace, sul passaggio vita-morte-vita), è il poeta Orfeo a scegliere per il suo ciclo esistenziale futuro il bios del cigno, a conferma del nesso simbolico che Platone stabilisce tra canto ispirato e tentativo di dominare il passaggio oltre la morte. Ciò istituisce un confronto a distanza tra i due ‘cigni’ Orfeo e Socrate, diversamente attrezzati per il vaticinio, entrambi interessati a forzare le porte dell’Ade e a rischio di fallire nell’impresa, entrambi impegnati nella gioia del canto. 3.Sul desiderio di morte del cantore L’immagine del canto del cigno va a completare l’indicazione che domina l’introduzione al dialogo nel Fedone: il desiderio di morte del filosofo, esplicitato come desiderio dell’anima di restare «tutta sola con se stessa». L’impegno nel dialogo e ogni gesto della sua ultima apparizione scenica fanno di Socrate l’icona di una forma di vita interamente spesa nella synousia filosofica e insieme la negazione del sentimento tragico che accompagna il trapasso nel modo di sentire comune. L’immagine si propone come mezzo per rivisitare alcune questioni: 1) se e in che senso il distacco del filosofo possa essere inteso come fine ultimo e se questo sia la morte; 2) se ciò che caratterizza il filosofo sia un desiderio di abbandonare la vita, nel senso di passare a miglior vita, dimenticando quanto appariva rilevante in relazione all’esistenza; 3) se la pratica filosofica (come forma di esercizio intellettuale e morale che realizza un reiterato distacco dalle pressioni legate ai bisogni del corpo) non sia un candidato migliore a rappresentare il bisogno dell’anima di trovare in sé sola la sua consistenza e il fine ultimo di una vita da filosofo. 4. Su un desiderio di immortalità che convive con l’incertezza Le tesi di Socrate sull’immortalità dell’anima, come dimostrazioni difettose e incompiute, si oppongono prima facie alla certezza del filosofo di star concludendo la vita nel modo migliore. Ricorrendo al confronto con la soluzione dell’Apologia (che lasciava aperta l’alternativa sul futuro oltre la vita, mantenendo inalterato il valore del dialegesthai di fronte alla morte), si intende sostenere che anche nel Fedone si riproponga la rinuncia alla verità dimostrativa, unita alla certezza morale della scelta che induce a persistere nell’attività più degna, come se essa rendesse realmente immortali. Il comportamento di Socrate in attesa della morte (un esempio di eccelsa e teatrale sobrietà, dichiaratamente anti-tragico), potrebbe apparire stoico ante litteram, se a ciò non si aggiungesse la gioia, tratto emozionale che sarebbe ininfluente nel contesto psichico iper-razionale cui darà vita lo Stoicismo, ma che risulta fortemente espressivo nel quadro dell’eudaimonismo platonico. Non l’attesa del trapasso sembra giustificare la gioia del canto, ma l’effetto finale, vissuto e consolidato, della vita buona, che ha condotto la mente del filosofo a raggiungere la sua massima lucidità, rendendo ragione e testimonianza di uno stato di indistruttibile felicità interiore. Il suo canto del cigno sarebbe in questo senso vaticinio veritiero sul senso della vita e sul modo di impiegarla, mentre persiste l’incertezza sul destino dell’anima individuale e l’oscurità del passaggio tra vita e morte. Il «bel rischio» di credere nell’eternità consisterebbe allora nell’ attribuire valore all’unica forma di stabilità sperimentata a livello umano: l’identità intellettuale e morale. 5.Sull’esecuzione perfetta di Socrate e il superamento delle favole sapienziali Il canto di Socrate nel Fedone è un’esecuzione perfetta. Essa fornisce un esempio di ciò che un filosofo è in grado di fare con la pratica ininterrotta del dialegesthai e la fiducia nel valore del discorso di fronte al dubbio che la dimostrazione dell’immortalità sia fallace. Se tale fiducia deve persistere anche quando (soprattutto quando) si manifestano i suoi limiti (rinvio al tema della «zattera del discorso»), potremmo trarne un paradosso: Socrate diventa immortale nell’atto che lo caratterizza come filosofo, mentre fallisce la sua dimostrazione dell’immortalità. Nel suo canto del cigno si fissa l’immagine di una pratica perfetta, in cui è racchiusa la solidità di una virtù che è in se stessa felicità. Ciò segna la sua definitiva distanza dalle figure sapienziali simili agli sciamani, cui si attribuivano poteri demonici, legati a credenze nella persistenza e trasmigrazione delle anime, a pratiche di distacco dal corpo, simili agli esercizi di concentrazione attribuiti a Socrate. Ma nel Fedone il distacco è rappresentato come pratica intellettuale e morale che istituisce un presidio di controllo – il giudizio dell’anima – al di sopra di tutto ciò che l’anima avverte e fa con il tramite del corpo. Lo sfondo salvifico di matrice orfico-pitagorica, chiaramente presente nel Fedone, lo è come oggetto di aperta contestazione critica, da parte del filosofo, su punti di evidente insufficienza dottrinaria, come la teoria dell’anima-armonia (sostituita appunto con l’idea di preminenza del giudizio dell’anima su quanto essa vive in congiunzione naturale col corpo). Il solo punto in cui Socrate si appropria in prima persona del vocabolario simbolico orfico-pitagorico, è quello in cui dà vita al mito finale della «vera terra»: un’immagine che ha un evidente ruolo retorico-persuasivo e che per molti motivi dovrebbe essere considerata una «bella menzogna».
2016
XI Symposium platonicum; Plato’s Phaedo. Papers
São Paulo
International Plato Society/Annablume Classica
9788539107841
de Luise, Fulvia
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