Erano le dieci di sera del 24 ottobre 1676, un sabato, quando Francesco Maria Petruccioli, gesuita e missionario popolare di chiara fama (1631-1688), giunse a Cortona scalzo e in abito da pellegrino. Il sacerdote era stato invitato in città dal vescovo Filippo Galilei, evidentemente incline ad accogliere le istanze di rinnovamento spirituale allora caldeggiate dalla classe dirigente coritana. Nell’arco di poche settimane il gesuita avrebbe letteralmente ridotto a penitenza l’intera diocesi, non mancando di prestare le proprie cure e attenzioni alle ville del “Piano”, della “Montagna” e della Val di Pierle. Rientrato stabilmente in città sul finire di novembre, Petruccioli trascorse l’avvento predicando al fianco del clero locale, e ancora profondendo anima e corpo nella consolazione degli afflitti, dei malati e dei carcerati. Tali e tanti furono i frutti spirituali maturati in così breve tempo che il Consiglio generale cittadino, riunitosi su istanza del primo magistrato, decretò all’unanimità di far mostra al gesuita delle spoglie e delle reliquie di santa Margherita in segno di profonda gratitudine e riconoscenza. Date le premesse, difficilmente il sacerdote avrebbe potuto immaginare che di lì a qualche anno il ricordo del suo apostolato in Val di Chiana sarebbe stato veicolato da un poema satirico, esplicitamente anti-gesuitico: facciamo riferimento alla Cortona convertita del p. Francesco Moneti, minore conventuale coritano (1635-1712). L’opera, in sei canti e in ottava rima, ripercorre con irriverenza le fasi salienti della missione insistendo sul tema tipicamente seicentesco dell’ipocrisia. Questa non è incarnata dal solo Petruccioli (a immagine della Societas Iesu), ma permea l’intera cittadinanza: come le prediche del gesuita inducono i cortonesi al pentimento e alla pubblica espiazione dei propri peccati, così il sopraggiungere del Carnevale cancella in loro ogni traccia di contrizione e apparenza di vita cristiana. Chi cercasse notizia della Cortona convertita nelle grandi collane dedicate alla storia della letteratura italiana e dei suoi generi non troverebbe che scarne informazioni, talvolta viziate da banali fraintendimenti. Il dato, invero poco incoraggiante, è a suo modo significativo: il testo preso in esame è il parto di un ingegno che, eufemisticamente parlando, può dirsi marginale al moderno canone per il Seicento. Alla scarsa attenzione riservata all’opera dalla critica novecentesca, cui si sottraggono gli studi di Saul Torti ed Enzo Mattesini, si contrappone il vivido interesse che essa suscitò nei secoli passati e in modo particolare nel diciottesimo. Ne recano testimonianza la sovrabbondante tradizione manoscritta, nonché sette edizioni a stampa, edite tutte alla macchia nel secondo Settecento (1759-1797) in un clima di diffuso antigesuitismo. La tempesta che travolse la Societas durante i pontificati di Clemente XIII e Clemente XIV – tempesta che avrebbe determinato il naufragio dell’Ordine (1773) – può spiegare solo parzialmente l’enorme successo riscosso dal poema. Le ragioni di una tale fortuna affondano le proprie radici nel Seicento, in un contesto storico-sociale fortemente segnato dall’azione apostolica della Compagnia e dunque dalle missioni popolari. Il poema monetiano rielabora in chiave prettamente polemica e satirica quello che può definirsi a tutti gli effetti un fenomeno di costume, amplificando le perplessità e le obiezioni di quanti guardavano con scetticismo o, peggio, con sospetto agli eccessi connaturati alle scorrerie perpetrate in lungo e in largo dai discepoli del “Pellegrino”. Ebbene, l’intelligenza della Cortona convertita non può prescindere da una disamina dell’azione missionaria di matrice gesuitica; per questo motivo si è ritenuto opportuno dedicare all’argomento un intero capitolo, il primo per l’esattezza. Nel secondo trova spazio un profilo bio-bibliografico dell’autore. Uomo di vasta e varia erudizione, nel corso degli anni, il p. Moneti si cimentò in numerosi generi letterari, dimostrando una certa certa propensione allo sperimentalismo linguistico e letterario, alla risata crassa e triviale. Mordace e pungente, incurante o quasi delle conseguenze, non ebbe il benché minimo timore di scagliare i suoi strali contro le autorità ecclesiastiche e civili dell’epoca, pagando in prima persona il fio di tanta insubordinazione. Nel 1669 circa venne condannato al carcere in Sant’Angelo per una pasquinata in denuncia degli intrighi orditi durante i pontificati del defunto papa, Clemente IX, e del suo predecessore Alessandro VII. Negli anni Settanta scontò una condanna detentiva quinquennale presso l’Ergastolo di Corneto in ragione di alcune sue (e non meglio precisate) poesie satiriche. Riconquistata la libertà, il p. Moneti divenne celebre in tutta Italia grazie alle Apocatastasi celesti (1680-1712), dei libercoli di interesse preminentemente astrologico, cui faceva di solito seguire alcune sue composizioni poetiche dal carattere sovente moraleggiante. Una figura sui generis, quella del francescano, e purtuttavia capace di attirare le simpatie e la stima dei Medici. Il terzo capitolo costituisce una vera e propria introduzione al testo. Esplicate le ragioni per le quali parrebbe lecito postdatare di una decina d’anni la stesura dell’opera, generalmente riferita al 1676 o al 1677, si è analizzata sul piano filologico e linguistico l’unica attestazione autografa del poema: si tratta di un frammento conservato alle cc. 125r-126r, 127r-128v e 130r del ms. composito 477 della Biblioteca del Comune e dell’Accademia Etrusca di Cortona. La terza sezione di quest’ultimo capitolo è interamente dedicata all’analisi delle varianti dialettali attestate dalla tradizione e afferenti alla pubblica confessione di Margarito da Peciano, l’unico personaggio cui viene concessa la licenza di esprimersi nella sua lingua natia. Segue una disamina della trasposizione satirica dei momenti salienti della missione, dunque un prospetto dedicato alla deformazione parodica del predicatore e del suo uditorio. Considerata la mole della tradizione, tale da escludere la possibilità di un’edizione di tipo lachmanniano, constata la mancanza di codici che possano garantire una solida base testuale in ragione della possibile autografia, abbiamo deciso di far riferimento alla lezione offerta dalla stampa in volume unico del 1790, lezione che, fatto salvo qualche fisiologico aggiustamento, sarebbe stata riproposta, inalterata o quasi, nelle successive tre impressioni della Cortona convertita (1790P, 1791, 1797). La scelta è stata dettata da ragioni di prestigio storico: proprio l’edizione in volume unico del 1790 ha segnato l’ingresso del poema tra i citati delle maggiori imprese lessicografiche.

La Cortona convertita del p. Francesco Moneti, satira di una missione gesuitica nelle Indie di quaggiù. Testo e contesto culturale / Guidetti, Matteo. - (2021 Jan 28), pp. 1-283. [10.15168/11572_287628]

La Cortona convertita del p. Francesco Moneti, satira di una missione gesuitica nelle Indie di quaggiù. Testo e contesto culturale

Guidetti, Matteo
2021-01-28

Abstract

Erano le dieci di sera del 24 ottobre 1676, un sabato, quando Francesco Maria Petruccioli, gesuita e missionario popolare di chiara fama (1631-1688), giunse a Cortona scalzo e in abito da pellegrino. Il sacerdote era stato invitato in città dal vescovo Filippo Galilei, evidentemente incline ad accogliere le istanze di rinnovamento spirituale allora caldeggiate dalla classe dirigente coritana. Nell’arco di poche settimane il gesuita avrebbe letteralmente ridotto a penitenza l’intera diocesi, non mancando di prestare le proprie cure e attenzioni alle ville del “Piano”, della “Montagna” e della Val di Pierle. Rientrato stabilmente in città sul finire di novembre, Petruccioli trascorse l’avvento predicando al fianco del clero locale, e ancora profondendo anima e corpo nella consolazione degli afflitti, dei malati e dei carcerati. Tali e tanti furono i frutti spirituali maturati in così breve tempo che il Consiglio generale cittadino, riunitosi su istanza del primo magistrato, decretò all’unanimità di far mostra al gesuita delle spoglie e delle reliquie di santa Margherita in segno di profonda gratitudine e riconoscenza. Date le premesse, difficilmente il sacerdote avrebbe potuto immaginare che di lì a qualche anno il ricordo del suo apostolato in Val di Chiana sarebbe stato veicolato da un poema satirico, esplicitamente anti-gesuitico: facciamo riferimento alla Cortona convertita del p. Francesco Moneti, minore conventuale coritano (1635-1712). L’opera, in sei canti e in ottava rima, ripercorre con irriverenza le fasi salienti della missione insistendo sul tema tipicamente seicentesco dell’ipocrisia. Questa non è incarnata dal solo Petruccioli (a immagine della Societas Iesu), ma permea l’intera cittadinanza: come le prediche del gesuita inducono i cortonesi al pentimento e alla pubblica espiazione dei propri peccati, così il sopraggiungere del Carnevale cancella in loro ogni traccia di contrizione e apparenza di vita cristiana. Chi cercasse notizia della Cortona convertita nelle grandi collane dedicate alla storia della letteratura italiana e dei suoi generi non troverebbe che scarne informazioni, talvolta viziate da banali fraintendimenti. Il dato, invero poco incoraggiante, è a suo modo significativo: il testo preso in esame è il parto di un ingegno che, eufemisticamente parlando, può dirsi marginale al moderno canone per il Seicento. Alla scarsa attenzione riservata all’opera dalla critica novecentesca, cui si sottraggono gli studi di Saul Torti ed Enzo Mattesini, si contrappone il vivido interesse che essa suscitò nei secoli passati e in modo particolare nel diciottesimo. Ne recano testimonianza la sovrabbondante tradizione manoscritta, nonché sette edizioni a stampa, edite tutte alla macchia nel secondo Settecento (1759-1797) in un clima di diffuso antigesuitismo. La tempesta che travolse la Societas durante i pontificati di Clemente XIII e Clemente XIV – tempesta che avrebbe determinato il naufragio dell’Ordine (1773) – può spiegare solo parzialmente l’enorme successo riscosso dal poema. Le ragioni di una tale fortuna affondano le proprie radici nel Seicento, in un contesto storico-sociale fortemente segnato dall’azione apostolica della Compagnia e dunque dalle missioni popolari. Il poema monetiano rielabora in chiave prettamente polemica e satirica quello che può definirsi a tutti gli effetti un fenomeno di costume, amplificando le perplessità e le obiezioni di quanti guardavano con scetticismo o, peggio, con sospetto agli eccessi connaturati alle scorrerie perpetrate in lungo e in largo dai discepoli del “Pellegrino”. Ebbene, l’intelligenza della Cortona convertita non può prescindere da una disamina dell’azione missionaria di matrice gesuitica; per questo motivo si è ritenuto opportuno dedicare all’argomento un intero capitolo, il primo per l’esattezza. Nel secondo trova spazio un profilo bio-bibliografico dell’autore. Uomo di vasta e varia erudizione, nel corso degli anni, il p. Moneti si cimentò in numerosi generi letterari, dimostrando una certa certa propensione allo sperimentalismo linguistico e letterario, alla risata crassa e triviale. Mordace e pungente, incurante o quasi delle conseguenze, non ebbe il benché minimo timore di scagliare i suoi strali contro le autorità ecclesiastiche e civili dell’epoca, pagando in prima persona il fio di tanta insubordinazione. Nel 1669 circa venne condannato al carcere in Sant’Angelo per una pasquinata in denuncia degli intrighi orditi durante i pontificati del defunto papa, Clemente IX, e del suo predecessore Alessandro VII. Negli anni Settanta scontò una condanna detentiva quinquennale presso l’Ergastolo di Corneto in ragione di alcune sue (e non meglio precisate) poesie satiriche. Riconquistata la libertà, il p. Moneti divenne celebre in tutta Italia grazie alle Apocatastasi celesti (1680-1712), dei libercoli di interesse preminentemente astrologico, cui faceva di solito seguire alcune sue composizioni poetiche dal carattere sovente moraleggiante. Una figura sui generis, quella del francescano, e purtuttavia capace di attirare le simpatie e la stima dei Medici. Il terzo capitolo costituisce una vera e propria introduzione al testo. Esplicate le ragioni per le quali parrebbe lecito postdatare di una decina d’anni la stesura dell’opera, generalmente riferita al 1676 o al 1677, si è analizzata sul piano filologico e linguistico l’unica attestazione autografa del poema: si tratta di un frammento conservato alle cc. 125r-126r, 127r-128v e 130r del ms. composito 477 della Biblioteca del Comune e dell’Accademia Etrusca di Cortona. La terza sezione di quest’ultimo capitolo è interamente dedicata all’analisi delle varianti dialettali attestate dalla tradizione e afferenti alla pubblica confessione di Margarito da Peciano, l’unico personaggio cui viene concessa la licenza di esprimersi nella sua lingua natia. Segue una disamina della trasposizione satirica dei momenti salienti della missione, dunque un prospetto dedicato alla deformazione parodica del predicatore e del suo uditorio. Considerata la mole della tradizione, tale da escludere la possibilità di un’edizione di tipo lachmanniano, constata la mancanza di codici che possano garantire una solida base testuale in ragione della possibile autografia, abbiamo deciso di far riferimento alla lezione offerta dalla stampa in volume unico del 1790, lezione che, fatto salvo qualche fisiologico aggiustamento, sarebbe stata riproposta, inalterata o quasi, nelle successive tre impressioni della Cortona convertita (1790P, 1791, 1797). La scelta è stata dettata da ragioni di prestigio storico: proprio l’edizione in volume unico del 1790 ha segnato l’ingresso del poema tra i citati delle maggiori imprese lessicografiche.
28-gen-2021
XXXII
2018-2019
Lettere e filosofia (29/10/12-)
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