Dopo aver mosso i suoi primi passi da studioso entro la tradizione idealistica italiana, prima sotto la guida di Adolfo Omodeo, quindi sotto quella di Benedetto Croce, Ernesto De Martino, che già si era laureato in Storia delle religioni e aveva compiuto studi etnologici ed etnopsichiatrici, fu ben presto mosso dalla necessità di “allargare” gli orizzonti del modello storicista che aveva fatto proprio e di includere in questo nuove istanze e nodi problematici provenienti da differenti prospettive: dall’esistenzialismo (in particolare quello italiano di Abbagnano, Paci e Pareyson; e in un secondo momento quello di Heidegger, Jaspers e Sartre); quindi dalla fenomenologia (Husserl, Merleau-Ponty e ancora Paci); dal materialismo storico (Marx, e in misura maggiore Gramsci); nonché dalla psicoanalisi (Freud e Janet), dalla psichiatria e dalla psicopatologia fenomenologica (Binswanger, Callieri, Ey, Storch, et alii). De Martino ripensò a fondo e si sforzò di unificare temi che appartenevano a tutte queste prospettive di per sé eterogenee. Di qui la presenza di una caratteristica oscillazione: da un lato l’impostazione storicista, che lo conduceva a porre in primo piano la variabilità delle forme culturali; da un altro lato il suo interesse per la psichiatria (dinamica e fenomenologica) e l’antropologia strutturalista, che lo spingeva alla ricerca di strutture universali della psiche (Lanternari, 1997). Il risultato è un’opera vasta, complessa e vitale, tesa a definire gli aspetti costanti del confine che separa, nella vita di ogni individuo e in ogni cultura, la certezza e la crisi. Al centro della scena, il concetto di presenza, il sentimento primario del proprio “aver senso” in un mondo “dotato di senso”; un sentimento che è però un’acquisizione precaria, continuamente costruita dal soggetto e costantemente esposta al rischio della crisi («il dramma esistenziale dell’esserci esposto al rischio di non esserci»). Queste idee, insieme a molte altre, come quella di una destorificazione mitico-rituale dei momenti precari del vivere o di una domesticità praticabile, compongono una galassia tematica la cui importanza si è andata progressivamente imponendo nel corso degli ultimi decenni. In particolare, l’indagine demartiniana sui meccanismi che consentono agli individui di difendersi dall’angoscia di fronte ai “momenti critici del divenire” si è rivelata genialmente precorritrice degli studi sull’identità e il self attualmente fiorenti nelle scienze psicologiche. Ciò fa sì che solo oggi l’antropologia filosofica demartiniana trovi il contesto di idee e di conoscenze in cui poter essere pienamente valorizzata. Cercheremo di mostrarlo nelle pagine che seguono.
Presenza e crisi della presenza tra filosofia e psicologia
Berardini, Sergio Fabio
2016-01-01
Abstract
Dopo aver mosso i suoi primi passi da studioso entro la tradizione idealistica italiana, prima sotto la guida di Adolfo Omodeo, quindi sotto quella di Benedetto Croce, Ernesto De Martino, che già si era laureato in Storia delle religioni e aveva compiuto studi etnologici ed etnopsichiatrici, fu ben presto mosso dalla necessità di “allargare” gli orizzonti del modello storicista che aveva fatto proprio e di includere in questo nuove istanze e nodi problematici provenienti da differenti prospettive: dall’esistenzialismo (in particolare quello italiano di Abbagnano, Paci e Pareyson; e in un secondo momento quello di Heidegger, Jaspers e Sartre); quindi dalla fenomenologia (Husserl, Merleau-Ponty e ancora Paci); dal materialismo storico (Marx, e in misura maggiore Gramsci); nonché dalla psicoanalisi (Freud e Janet), dalla psichiatria e dalla psicopatologia fenomenologica (Binswanger, Callieri, Ey, Storch, et alii). De Martino ripensò a fondo e si sforzò di unificare temi che appartenevano a tutte queste prospettive di per sé eterogenee. Di qui la presenza di una caratteristica oscillazione: da un lato l’impostazione storicista, che lo conduceva a porre in primo piano la variabilità delle forme culturali; da un altro lato il suo interesse per la psichiatria (dinamica e fenomenologica) e l’antropologia strutturalista, che lo spingeva alla ricerca di strutture universali della psiche (Lanternari, 1997). Il risultato è un’opera vasta, complessa e vitale, tesa a definire gli aspetti costanti del confine che separa, nella vita di ogni individuo e in ogni cultura, la certezza e la crisi. Al centro della scena, il concetto di presenza, il sentimento primario del proprio “aver senso” in un mondo “dotato di senso”; un sentimento che è però un’acquisizione precaria, continuamente costruita dal soggetto e costantemente esposta al rischio della crisi («il dramma esistenziale dell’esserci esposto al rischio di non esserci»). Queste idee, insieme a molte altre, come quella di una destorificazione mitico-rituale dei momenti precari del vivere o di una domesticità praticabile, compongono una galassia tematica la cui importanza si è andata progressivamente imponendo nel corso degli ultimi decenni. In particolare, l’indagine demartiniana sui meccanismi che consentono agli individui di difendersi dall’angoscia di fronte ai “momenti critici del divenire” si è rivelata genialmente precorritrice degli studi sull’identità e il self attualmente fiorenti nelle scienze psicologiche. Ciò fa sì che solo oggi l’antropologia filosofica demartiniana trovi il contesto di idee e di conoscenze in cui poter essere pienamente valorizzata. Cercheremo di mostrarlo nelle pagine che seguono.File | Dimensione | Formato | |
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